FINALE: GERMANIA-SPAGNA 0-1
La conclusione più logica, la squadra più talentuosa e (insospettabilmente) solida si aggiudica una delle vittorie meno discutibili nella storia recente delle manifestazioni internazionali. La stessa statistica viene in soccorso issando la Spagna in testa praticamente a tutte le classifiche riguardanti gli aspetti del gioco: la squadra con più gol fatti e quella ad averne subiti meno dopo la Croazia, quella con più tiri all’ attivo, sia nello specchio che fuori, quella che ha costretto ad intervenire meno il proprio portiere e, passando dai dati oggettivi alle sensazioni (solo fino a un certo punto) soggettive, la squadra più sicura, completa, continua, matura ed autorevole.
È stato una specie di romanzo di formazione quest’ Europeo per la Spagna: una squadra partita con l’ obiettivo tremendamente generico ma anche tremendamente pressante del “saper competere”, abbastanza scoordinata, insicura e discontinua nel gioco nelle prime partite del girone, è cresciuta progressivamente fino a consolidare e ad affermare in maniera rotonda una propria identità e credibilità: la gara con l’ Italia è stata la prova più difficile, un esame di maturità nel quale la Spagna ha dimostrato di aver saputo apprendere dalle ingenuità del passato e di saper interpretare con la giusta attenzione e prudenza una gara ad eliminazione diretta; sconfitta la psicosi dei quarti di finale, la semifinale con la Russia ha rappresentato invece la tesi di laurea, una dimostrazione di padronanza che ha avuto in uno spettacolare secondo tempo il punto più alto di quest’ Europeo spagnolo; la finale di stasera con la Germania è stata invece l’ approdo relativamente sereno dopo che gli scogli più duri erano stati superati, una sorta di certificazione ufficiale di quanto la Spagna aveva seminato in precedenza.
Addentrandoci nel dettaglio, in questo romanzo di formazione è inclusa anche una visibile e progressiva crescita in quelli che sono gli aspetti tecnico-tattici più rilevanti. Partita come una formazione che aveva nel pallone il suo migliore ed unico amico, con grossissimi interrogativi che riguardavano la fase di non possesso (le transizioni difensive: come e dove recuperiamo il pallone appena perso?), la linea difensiva (specialmente sulle palle alte) e le transizioni offensive (toque-toque-toque… e poi quando verticalizziamo?), a fortissimo rischio di prevedibilità e monodimensionalità, come le convocazioni di Aragonés facevano temere (un esercito di centrocampisti propensi a calcare le zone centrali e a chiedere palla sui piedi invece che andare ad attaccare lo spazio; spinta sulle fasce ridotta al minimo; attaccanti un po’ simili fra di loro, anche se niente affatto uguali), si è ritrovata col passare delle partite a dominare tutti questi aspetti con una crescente autorevolezza.
La sua identità è sempre rimasta legata prevalentemente al possesso-palla, utile anche solo per sfiancare e tenere lontano dalla propria area l’ avversaria (vedi anche l’ esemplare gestione di questi ultimi 10 minuti) ma ha saputo completare questo aggiungendo tanto altro, esprimendo quelle caratteristiche indispensabili per vincere: concentrazione e sacrificio in fase di non possesso (enorme la crescita della linea difensiva nel corso del torneo, ha finito col risultare quasi impeccabile persino nella difesa delle palle alte e dei calci piazzati), e capacità di alternare con maestria fasi manovrate corali nella metacampo avversaria (concetto decisamente arrugginito nelle prime partite, ma che ha avuto una splendida applicazione nell’ occasione del vantaggio di Xavi in semifinale) a contropiedi micidiali per la verticalità e la scioltezza nel tocco di palla di tutti i giocatori. Significativo che questa Spagna abbia chiuso l’ Europeo nella stessa maniera in cui lo aveva iniziato con la Russia, sfogandosi proprio nell’ azione di rimessa.
In ultimo, non può che avere il massimo rilievo la figura di Luis Aragonés: se i giocatori sono vincitori, lui è stra-vincitore. Ha saputo forgiare un gruppo, gestendolo con la massima personalità (credo passeranno alla storia di quest’ Europeo le sue sostituzioni, apparentemente “spregiudicate” ma quasi sempre lungimiranti) e avendo ragione fino in fondo, se ne va gonfio di orgoglio per aver sbugiardato una critica spesso inaccettabile nei mesi precedenti l’ Europeo perché quasi mai effettuata a partire da argomentazioni tecniche ragionate, in alcuni casi di cattivo gusto e intellettualmente disonesta perché incentrata non sul bene della nazionale ma su questioni di campanile travestite quasi da innegoziabili interessi di Stato (mi riferisco ai quotidiani sportivi di Madrid e alla snervante campagna pro-Raúl).
Per quanto riguarda la Germania, una finale di palese anonimato: approccio giusto alla partita, ma poi si è disunita e non ha saputo più dire nulla di significativo, soprattutto una volta passata in svantaggio. Possiamo pure abusare con la retorica e la mitologia ricordando che “non mollano mai”, che “sanno vincere giocando male”, che “son sempre tedeschi” etc., ma oltre certi limiti qualitativi non puoi andare, quando non sai proporre nulla oltre a un mucchio di traversoni scontati e quando come extrema ratio improvvisi Metzelder alla Beckenbauer, beh, allora è già un grandissimo risultato aver raggiunto la finale…
Abbiamo detto approccio giusto della Germania: nei primi quindici/venti minuti Loew dimostra di averla pensata e preparata al meglio questa partita, intuendo dove fare male a una Spagna che risulta decisamente spiazzata da quest’ impostazione. La Germania mantiene il baricentro alto come non aveva fatto l’ Italia, cercando di inardidire il gioco spagnolo alla fonte, direttamente sulla trequarti ad inizio azione, e, almeno, in queste fasi iniziali, mantiene le distanze giuste fra i reparti che erano mancate nella titubante Russia della semifinale. Risultato: imbarazzi grossi per le Furie Rosse quando devono cominciare l’ azione, Sergio Ramos rischia pure di combinarla grossa con una delle sue leggerezze in disimpegno, mancano quei primi due passaggi che danno poi l’ innesco al tourbillon fra le linee, i favoriti della vigilia faticano a trovare gli appoggi per distendersi, sono contratti e ricorrono più frequentemente del solito al pallone lungo e frettoloso verso l’ attacco, situazione nella quale la Germania, per accompagnare il pressing alto, rischia la difesa alta, probabilmente pensando che con l’ assenza di Villa i pericoli in profondità si dimezzino.
La Germania ha il dominio territoriale e il controllo del pallone, cerca l’ unica situazione offensiva veramente rimarchevole nel suo Europeo, ovvero il sovraccarico sulla fascia destra avversaria, con Klose o Ballack che vengono incontro e a turno si allargano sulla sinistra per combinare con Podolski, creando da qui i presupposti per la sovrapposizione del terzo uomo (generalmente Lahm), attirando in zona la difesa avversaria e preparando il taglio a sorpresa in area di Schweinsteiger dal lato opposto (quello che si è visto contro Portogallo e Turchia). Una situazione che la Spagna può soffrire, si intuisce, ma che al di là di un traversone insidioso di Ballack, la Germania non fa a tempo a sfruttare in maniera adeguata, perché la partita ormai sta girando dall’ altra parte, e le cose non cambieranno più.
Cominciano a formarsi crepe nella barriera tedesca, il pallone inizia a scorrere negli spazi che pian piano si aprono fra i reparti, la Spagna trova la continuità che desidera nella circolazione del pallone e questo costringe la Germania a perdere campo, brutto segno. Nella Spagna che acquisisce confidenza e prende le misure al match a salire in cattedra è un sontuoso Xavi Hernández Creus, il più raziocinante e lungimirante dei 22 giocatori in campo, maestro nel gestire i tempi del gioco e scegliere di volta in volta la migliore opzione: il blaugrana scuote i suoi innescando la prima azione pericolosa, un geniale passaggio che tagliando la difesa avversaria smarca Capdevila sulla sinistra e avvia l’ azione successivamente conclusa in angolo dopo una pericolosa deviazione di Metzelder su cross di Iniesta sventata da Lehmann.
La partita è girata, e la Spagna riesce ora a distendersi, a fraseggiare e a coinvolgere più uomini nelle sue manovre. Ad esempio Sergio Ramos mette la testa fuori, e su un suo cross ben calibrato Torres si eleva sopra Mertesacker (1,98, ricordiamolo), indirizza al meglio ma trova il palo a fermarlo. Più che demoralizzare questo fa capire alla Spagna di avere ormai in pugno la partita, e ancora Xavi illumina il cammino: il modulo a 5 centrocampisti aiuta il blaugrana, che scambiando la posizione con Cesc può muoversi con più libertà nella metacampo avversaria (quello che ama, detesta ripiegare e non è mai stato un “4” che gioca davanti alla difesa come Guardiola o Xabi Alonso), leggere le situazioni e cercarsi gli spazi giusti, come quello che al 33’ trova fra la difesa e il centrocampo tedesco, e dal quale imbuca un perfetto pallone verticale per la corsa di Torres: Metzelder e Lahm son piazzati male, c’è spazio ed il terzino del Bayern è in ritardo nella copertura, il controllo a seguire del Niño è un po’ largo, ma con la falcata potente Torres prende la posizione a un morbidissimo Lahm e fa in tempo ad anticipare l’ uscita di Lehmann con un tocco sotto risolutore.
Partita in cassaforte per la Spagna, che può gestire i ritmi e il contropiede, già da subito dopo il vantaggio, quando Silva sciupa malamente una ripartenza rifinita con classe da Iniesta. Partita in cassaforte anche perché la Germania ha poco o nulla da offrire contro una difesa schierata, fa una fatica mostruosa a far transitare la palla fra i reparti, tanto che con sempre maggiore costanza si comincia a vedere Metzelder cercare la zingarata palla al piede, fatto insolito che denuncia improvvisazione e mancanza di idee.
La Spagna affronta il secondo tempo (nel quale Lahm non c’è più, mandato dietro la lavagna in favore di Jansen) proprio con l’ idea di cedere il pallone ai tedeschi, evidenziarne la debolezza e poi ripartire. Gli uomini di Aragonés non soffrono per la modestia dell’ avversario e anche perché andando avanti in quest’ Europeo hanno sempre più imparato a difendersi e sacrificarsi come blocco, sebbene la loro gestione del pallone in alcuni tratti denoti un po’ più ansietà e meno limpidezza rispetto alle scorse partite.
Ci sono comunque 5-6 minuti di fluidità, nei quali la partita sembra potersi anche riaprire, quei minuti dopo che Loew inserisce la seconda punta, Kuranyi (il tecnico tedesco capisce che l’ unica via è cercare una pressione più diretta sui centrali spagnoli, sennò in porta non ci si arriva mai) e nei quali la Spagna sta perdendo un po’ le distanze fra Senna e Cesc e Xavi, i quali cominciano a faticare a recuperare le loro posizioni dietro la linea della palla, creando anche migliori premesse per gli spostamenti di Schweinsteger in zona centrale. Una situazione nella quale la Germania crea la sua occasione più pericolosa, un tiro da fuori di Ballack sull’ esterno della rete dopo un pasticcio in disimpegno di Puyol, una situazione alla quale Aragonés decide di mettere mano con prontezza: ad uscire stavolta è Cesc, perché Xavi è quello più in partita, entra Xabi Alonso per costituire un doble pivote più saldo con Senna davanti alla difesa trasformando il modulo in un 4-2-3-1. Entra anche Cazorla, che sostituisce un Silva a forte rischio espulsione (fa il teppistello con Podolski, una mezza testata che Rosetti non vede).
Una ristrutturazione che beneficia la Spagna, che ritrova stabilità a centrocampo e che anzi col passare dei minuti si trova a difendere più nella metacampo avversaria col pallone fra i piedi che a sgomitare al limite della propria area. Mentre la Germania pur avendo un sacco di giocatori d’ attacco fa fatica a creare proprio per la separazione fra Ballack, Podolski, Schweinsteiger, Klose (poi Gomez), Kuranyi e l’ altra metà della squadra dove Mertesacker si trova sempre più spesso ad iniziare l’ azione con a disposizione poche opzioni di passaggio sparpagliate alla meglio, la Spagna vede aumentare gli spazi per il contropiede manovrato e per una gestione del pallone relativamente tranquilla. Potrebbe anche raddoppiare, se non fosse per qualche solito eccesso di frenesia di Torres nel condurre gli attacchi, per le parate di Lehmann su un colpo di testa di Sergio Ramos e su due conclusioni ravvicinate di Iniesta (una di queste, su azione da calcio d’ angolo, la salva anzi Frings appostato sul primo palo) smarcato in area, e per il ritardo al tap-in di Senna sulla sponda aerea di Güiza (neo-entrato, al posto di Torres, ovviamente!) dopo traversone dalla sinistra di Cazorla.
Paradossalmente, i minuti finali, quelli in cui secondo copione chi è in vantaggio dovrebbe stringere i denti e secondo tradizione i tedeschi “mai domi” dovrebbero essere più pericolosi che mai, sono i minuti nei quali la Spagna soffre meno, tiene su palla e allontana l’ avversario dalla propria porta, garantendosi un successo relativamente tranquillo.
Migliore in campo Xavi, accanto a lui il solito flemmatico equilibratore Senna, un Torres sempre vagamente caotico ma decisivo, un Marchena ancora una volta senza sbavature stavolta espressosi meglio del non sempre preciso Puyol di quest’ occasione.
Nella Germania deludono i migliori talenti: il solito passivo Ballack, un Podolski timido e impacciato quelle poche volte che gli si è presentata l’ occasione per incidere, un Schweinsteger che ha lasciato soltanto intravedere freschezza e ispirazione ma che a conti fatti non ha lasciato tracce. Il migliore Frings, l’ elemento di maggior spessore tattico.