domenica, dicembre 20, 2009

El Pecho de Dios.


Il titolo naturalmente è la solita baracconata per attirare l’attenzione e costringervi a leggere il post (ci siete cascati), però è di certo un bel modo per distinguersi dalla massa decidere un titolo mondiale per club con un gol di petto, così come magicamente bizzarro fu il colpo di testa in sospensione nella finale di Champions con lo United.
Messi decide questo mondiale (a partire già dall’ingresso con gol-lampo nella semifinale con l’Atlante), nonostante condizioni atletiche precarie, e fa ancora una volta la storia, perché questo è il primo titolo intercontinentale nella storia del Barça e perché è il sesto trofeo in una stagione quasi certamente irripetibile. Soddisfazione ancora più grande per le condizioni in cui è arrivata: ai supplementari dopo acute sofferenze causate da un primo tempo particolarmente inguardabile e da un Estudiantes che ha tenuto alto il buon nome del calcio argentino, ovvero disciplina difensiva, “carognaggine” e saper giocare a calcio in un impasto quasi sempre indigesto per l’avversario.
Giustissimo in casa blaugrana godersi quest’affermazione che permette di parlare compiutamente di ciclo, ma il presente e il futuro prossimo (vedi un Real Madrid ormai pronto a convertirsi in arma di distruzione di massa) impongono alcune riflessioni e aggiustamenti su problemi che nemmeno la partita di ieri ha nascosto.
Le molte gioie e le (ridotte ma da prendere sul serio) preoccupazioni culé passano da quattro nomi in particolare.


Pedrito l’amuleto

Messi ha posto la firma, ma chi davvero l’ha fatta svoltare questa finale è quel ragazzo delle Canarie che ha sempre l’aria di uno che passa di lì per caso ma che puntualmente si fa trovare al posto giusto. Ieri all’88’ in una giocata rocambolesca e fortunosa quanto volete, Pedro ha segnato l’ennesimo gol decisivo. Non è più un caso (tant’è che gli appartiene pure il record dell’unico giocatore blaugrana ad aver segnato in tutte e sei le competizioni in questo 2009-2010), qualcosa ci dovrà pur essere: non la tecnica di Messi, non la visione di gioco di Iniesta, ma caratteristiche che ne fanno una risorsa preziosa e sempre spendibile all’interno del modello di Guardiola sì.
Pedrito è anzitutto un giocatore “ideologicamente”a prova di bomba: ideale per giocare nel 4-3-3 made in La Masía, unica ala di ruolo della rosa, perfetto per dare ampiezza profondità e riferimenti al portatore di palla, con velocità e una buona tecnica (soprattutto col vantaggio di saper usare tutti e due piedi per calciare e portare palla) anche per puntare l’uomo. In più, particolare determinante, forza e freschezza mentale: mostra molti meno complessi e problemi ad entrare in partita, anche nelle partite più calde, di giocatori teoricamente molto più quotati di lui come Ibrahimovic e Bojan. Freschezza mentale e intuito in zona-gol che fanno comodo a un Barça che con la partenza di Eto’o sembra fare più fatica ad aggredire l’area piccola.
E riguardo alla partita di ieri, le notizie buone dalla cantera non sono soltanto quelle già risapute su Pedro. Non decisivo ma buono, coerente con ciò che richiedeva il match, anche l’apporto di Jeffren. Canario anche lui, ma di origini venezuelane, individualmente pure più dotato di Pedro anche se meno prezioso per il collettivo, nei supplementari con le squadre più lunghe e stanche e con l’Estudiantes che logicamente faticava di più a coprire il campo ha portato un po’di energia e dribbling che potevano fruttare importanti azioni da gol già prima del colpo di petto di Messi.
Cantera che per una rosa un po’ corta come quella blaugrana saranno particolarmente importanti a gennaio, quando la Coppa d’Africa priverà il centrocampo di Yaya Touré e Keita. Probabile il ricorso a Jonathan dos Santos e Thiago Alcantara, già intravisti in prima squadra.


I meriti (e la fortuna) di Guardiola


Quando sblocchi una finale a due minuti dal termine e con un gol piuttosto casuale non puoi certo gongolarti rivendicando la tua genialità strategica. Però posto che l’ultima parola la mettono sempre e comunque i giocatori sul campo, va anche sottolineato che Guardiola ancora una volta l’aveva letta bene questa partita. Letture originali, talvolta anticonvenzionali (vedi la risposta all’inferiorità numerica nel Clásico), spesso azzeccate.
Il Barça del primo tempo di ieri era un mezzo disastro. Contro un Estudiantes schierato con un 4-3-1-2 pronto a trasformarsi in 4-2-3-1 a seconda dei movimenti di Enzo Pérez (punta aggiunta a supporto di Boselli in fase di possesso, esterno destro in ripiegamento) i blaugrana non riuscivano proprio a trovare la profondità né le situazioni di superiorità numerica classiche tra le linee e sulle fasce. Al centro gli argentini accorciavano con una linea difensiva sempre molto vicina al centrocampo (un po’come il Real Madrid al Camp Nou, anche se con un baricentro più basso), aiutati anche dall’inesistente minaccia di un Ibrahimovic che non dettava mai la profondità. Sulle fasce il pallone invece arrivava raramente e a una velocità sempre sufficientemente ridotta da permettere all’Estudiantes di mantenere le posizioni difensive.
Insomma, il tipico caso in cui una squadra domina il possesso-palla ma in realtà non fa mai la partita. L’Estudiantes prende le misure e trova anche il modo di colpire in fase di rilancio alcune zone scoperte dello schieramento blaugrana.In particolare la fascia destra dove non sempre Messi aiuta Alves e dove il terzino sinistro del Pincha, Díaz, aiuta Benítez a creare la superiorità numerica, ispirando pure con un cross perfetto il gol del vantaggio di Boselli, ottimo opportunista come al solito.
La risposta di Guardiola nella ripresa è un cambio piuttosto radicale: un attaccante, Pedrito, ma al posto di un centrocampista, Keita (infortunato per i prossimi 15 giorni). Non è più un 4-3-3, ma qualcosa che somiglia molto a un 4-2-4. Il rischio, perché ogni scelta presenta un rovescio della medaglia, era che gli attacchi si facessero disordinati e la squadra si spezzasse in due, ma alla fine la reazione è stata sì determinata ma non confusa, e del cambio tattico si sono visti soltanto i vantaggi.
Gli effetti della mancanza di profondità di Ibrahimovic vengono attutiti: Messi gioca centrale e molto più vicino allo svedese, e se poi aggiungiamo Pedro ed Henry larghi rispettivamente a destra e sinistra, la difesa dell’Estudiantes si trova col rischio della parità numerica con l’attacco avversario. Questo, assieme ovviamente alla reazione d’orgoglio blaugrana, costringe il centrocampo argentino a retrocedere maggiormente a protezione del reparto arretrato, consegnando il predominio territoriale a un Barça che, gol casuale di Pedro a parte, nel secondo tempo si è mosso molto più costantemente e pericolosamente nei pressi della porta di Albil. Se la fortuna aiuta gli audaci, Guardiola è stato audace.


Il dubbio Ibrahimovic


Il Barça resta vincente, ma rispetto alla scorsa stagione non si può non notare un cambio, e cioè che questa squadra intimidisce di meno l’avversario e fa più fatica a creare occasioni da gol. Questo cambio è simboleggiato dalla figura di Ibrahimovic: prima che scatti il pensiero “allora Ibrahimovic è peggio di Eto’o” “il Barça ha fatto male”, chiarisco che Ibrahimovic è stato finora uno dei più positivi nella stagione blaugrana, senza ombra di dubbio. Però Zlatan ha pur sempre le sue caratteristiche, e bisogna far sì che si sposino al meglio con quelle del resto della squadra. Quando lo ha avuto Guardiola naturalmente sapeva che si trattava di un centravanti di manovra portato molto più a venire incontro ai centrocampisti che a occupare l’area di rigore, e lo ha gradito proprio per questo, perché è una fonte di gioco in più che dà possibilità ancora maggiori alla manovra culé.
Però se Zlatan svuota l’area qualcuno a riempirla ci deve pur essere, e in queste due partite di mondiale, ma anche in altre, il saldo è risultato negativo (e nell’occasione non è nemmeno stato carino aver tolto nelle fila avversarie a un randellatore come Desabato una presenza vicina cui poter far sentire tutto il suo affetto). Senza nessuno ad attaccare la profondità e a cercare di allungare le difese, gli avversari possono accorciare più facilmente in avanti, guadagnando metri anche per rilanciare il gioco.
Non è solo Zlatan il punto, è che in questo momento i meccanismi di compensazione all’interno della squadra scarseggiano, in particolare Henry che la stagione passata era preziosissimo coi suoi tagli a occupare in corsa gli spazi centrali che Messi lasciava nelle partite in cui agiva da falso centravanti.
Il francese per il momento non c’è proprio, e tutti devono fare uno sforzo in più: da Ibrahimovic che pur non snaturando il proprio gioco deve mostrarsi un po’più aggressivo (del resto gli si chiede uno sforzo molto minore di quello compiuto la stagione passata da Alves cambiando completamente i propri movimenti rispetto all’epoca del Sevilla), ai centrocampisti Keita (partito benissimo in zona gol, ora un po’ sgonfio), Xavi (in un momento piuttosto fiacco) e Iniesta (ieri assente) che devono proporre più inserimenti a sorpresa di quelli che già propongono e hanno proposto.
Di Ibrahimovic continua poi a lasciare perplessi il dato mentale ereditato dalle delusioni di Champions con l’Inter: in una partita decisiva come quella di ieri lo si è visto poco determinato anche quando le occasioni le ha avute, e continua a restare inspiegabile che un giocatore della sua classe e della sua stazza continui a farsi piccolo quando la contesa è particolarmente aspra, gol nel Clásico a parte.


Il caso Bojan

Un altro frenato ancora più pesantemente dal fattore mentale è Bojan Krkic, che immaginiamo si sentirà sottoterra dopo la gara di ieri. Novanta minuti di difficoltà offensive per il Barça e Guardiola gli preferisce non solo Pedrito ma anche Jeffren, scelte peraltro rivelatesi azzeccate. Non è la prima volta che capita, ed è la conferma di una fiducia ai minimi termini. È un peccato perché Bojan potenzialmente è uno che può mettere mano in maniera incisiva agli attuali problemi offensivi del Barça, essendo il più opportunista di tutti gli attaccanti della rosa blaugrana.
Vedendolo esplodere con Rijkaard a 17 anni si era pensato a un altro predestinato, uno con la personalità per muoversi senza problemi anche negli scenari più difficili. Invece il ragazzo ha un carattere molto più delicato, dimostrato anche da episodi come lo svenimento nello spogliatoio della nazionale spagnola alla prima convocazione o lo stesso anno il rifiuto della convocazione per l’Europeo per dichiarata inadeguatezza psicologica (questo da un altro verso può essere interpretato come un segno di intelligenza).
E queste difficoltà si vedono anche in campo in certi errori nel controllo o nelle conclusioni che in nessun modo possono essere spiegati attribuendogli una patente di mediocrità tecnica che non gli appartiene (non per altro, lo seguo sin dall’Europeo Under 17 del 2006, dove le giocate di qualità si sprecavano): ultimo esempio la partita con l’Atlante, dove prima sbaglia un controllo da zero in pagella e invece poi di prima chiude un triangolo con Pedrito con un difficile quanto meraviglioso passaggio d’esterno spalle alla porta.
La differenza fra i due esempi esposti è che nel primo Bojan ha avuto più tempo per pensare la giocata, mentre nella seconda ha agito d’istinto. Quando deve pensare troppo Bojan spesso si rifugia nella soluzione più semplice (che non è sempre la più giusta) oppure finisce col perdersi in un bicchier d’acqua; quando invece l’azione richiede istinto Bojan mostra notevole naturalezza e abilità soprattutto negli ultimi metri. Inoltre è un attaccante assai intelligente e completo nei movimenti senza palla, sia in appoggio (alla Ibra) che sul filo del fuorigioco, in un certo senso più completo tatticamente sia di Ibra che di Eto’o, anche se tremendamente sfavorito dal punto di vista atletico rispetto a questi due.
Il Barça ha bisogno di un Bojan in più.

FOTO: marca.com; mundodeportivo.es; elmundo.es

Etichette: , ,

venerdì, dicembre 18, 2009

Valencia – Silva= piccola squadra.

Alla fine il risultato è stato portato a casa, il girone UEFA superato, ma questa non è stata una settimana buona per il Valencia. Atteso alla verifica delle sue aspirazioni da grande squadra (attesa alimentata da una serie positiva di risultati accompagnata da alcuni momenti di gioco pure buoni), per ora non si è dimostrato all’altezza del compito. La grande squadra è quella che impone il suo ritmo (alto o basso che sia) e che costringe l’avversario a muoversi nelle zone di campo che desidera. Né tempo né spazio invece, il Valencia sabato e stasera non ha fatto altro che correre dietro all’avversario.

Una cosa va sicuramente riconosciuta a questo Valencia e al suo tecnico: rispetto alla scorsa stagione è una squadra. Non più cinque che attaccano e cinque che difendono con praterie concesse all’avversario, ma un blocco unico.Il Valencia pure stasera ha mantenuto distanze giuste fra i reparti, concentrazione (tranne che sul gol di Crespo, propiziato da Alexis che fa saltare il fuorigioco in uscita dall’area di rigore), spirito di sacrificio in copertura anche da parte dei trequartisti. Questa discreta solidità gli ha permesso di resistere all’aggressività del Genoa (che per tutta la ripresa ha fatto la partita ma senza creare grosse palle-gol) e gli ha permesso anche di cogliere una buona quantità di punti in campionato, specie in trasferta.

Assodato che il Valencia è “squadra” però manca l’aggettivo qualificativo da accompagnare, e ancora non è chiaro quale debba essere. Il Valencia a Genova si è difeso bene, ma praticamente mai ha recuperato il pallone dove desiderava, quindi in un senso più ampio ha difeso male. Sempre troppo lontano dall’area avversaria, non dovrebbero essere Joaquín e Mata a rincorrere Criscito e Marco Rossi ma il contrario, ciò che è avvenuto soltanto nel primo quarto d’ora, unico momento in cui il Valencia ha controllato la gara.

Il problema del Valencia costretto a difendere troppo basso (oppure ad avere il pressing alto e la ripartenza come unica arma contro il Real Madrid) nasce essenzialmente dalla difficoltà a distendersi in fase di possesso. Difficoltà da attribuire in primis all’assenza nelle ultime partite dell’infortunato Silva, giocatore dal quale l’equipo che sta dimostrando di dipendere sin troppo per poter essere definito una grande squadra.
Silva dà personalità, volume, tempi di gioco e un indirizzo coerente. In particolare se connesso ad un Banega inserito nel doble pivote. In assenza di Silva però Banega viene schierato più avanzato sulla trequarti, proprio come sostituto del canario. Mossa comprensibile, perché Villa, Mata, Pablo Hernández e Joaquín danno grande movimento e profondità, ma hanno bisogno sulla trequarti di un “direttore d’orchestra” che trattenga il pallone e lo smisti, rallentando o accelerando a seconda dei casi. Senza questo sono come delle frecce senza arco, quindi giusto Banega trequartista.


Banega trequartista però vuol dire Albelda-Marchena in mediana, e qui il Valencia entra in corto circuito, agisce come blocco solo in fase difensiva ma in quella offensiva può far male solo se ruba palla nella trequarti avversaria o se trova il contropiede giusto. Albelda e Marchena (stasera Marchena è uscito per infortunio lasciando spazio a Maduro, ma la sostanza cambia poco) sono anche in buona forma, ma sono doppioni, mediani bloccati che hanno un gioco prevelentemente orizzontale, senza il passaggio verticale per innescare la trequarti o anche la capacità di tenere palla per far guadagnare metri alla squadra.

Il Valencia senza Silva e con Banega sulla trequarti non riesce ad avanzare quando inizia l’azione dalle retrovie: da notare come Emery stia provando a implementare dei movimenti ad inizio azione simili a quelli del Barça (coi due difensori centrali che si allargano per evitare il pressing e il portiere o il centrocampista più arretrato che collaborano per assicurare la superiorità numerica rispetto alle punte avversarie), ma il tentativo è sinora stato timido e di scarso successo, un po’perché i piedi dei difensori centrali del Valencia non sono quelli dei difensori del Barça e un po’ perché il Valencia non può logicamente avere la fiducia e l’autorevolezza che il Barça ha storicamente nel proporre un simile stile di gioco.

In tutto questo, Banega in mediana offre un’ancora di salvezza. I difensori possono affidarsi subito all’argentino, che viene a prendersi palla, garantisce un primo passaggio pulito e difficilmente la perde se pressato. Unito alle capacità di Silva, ciò permette a tutto il Valencia di salire nella metacampo avversaria e conquistare le posizioni per recuperare palla sufficientemente lontano dalla propria area una volta svanita l’azione offensiva. Da questa connessione sono arrivati finora i momenti di miglior calcio nella stagione del Valencia, momenti del tutto impossibili però da replicare stasera a Marassi: il Valencia non si poteva distendere, non poteva tenere palla, non poteva rallentare il gioco e non poteva mai guadagnare metri. Per questo è stata una sofferenza continua, una continua ribattuta di cross al limite dell’area o di calci d’angolo che alla lunga non porta da nessuna parte.
Sarà interessante vedere ora come l’acquisto del Chori Domínguez potrà influire su questa situazione, se permetterà di arricchire le possibilità di gioco del Valencia diminuendo la dipendenza da Silva e consentendo un impiego in pianta stabile di Banega in cabina di regia. Allora il progetto di Emery potrebbe finalmente decollare.

FOTO: superdeporte.es, as.com

Etichette: , ,

mercoledì, dicembre 16, 2009

Zaragoza nel caos.


“Dopo la partita di domani mi cacceranno, lo so già”. Così, con la serenità di Marcelino di fronte all’inevitabile, cominciava la resa dei conti in casa Zaragoza, fissata per il match casalingo con l’Athletic Bilbao, puntualmente perso per 2-0. Resa dei conti alla quattordicesima giornata? Così funziona in Spagna, almeno in quelle realtà dove l’improvvisazione è l’unico valore irrinunciabile.

In realtà nessuno alla Romareda se l’è bevuta stavolta: eloquenti durante la partita i cori e gli striscioni, “Marcelino, ¡quédate!”, “¡Marcelino sí, directiva no!”, e via andando… Netta la presa di posizione contro una società che negli ultimi anni ha fatto sprofondare il Real Zaragoza in una crisi tecnica e finanziaria gravissima: critici verso la “taccagneria” della precedente gestione Solans, i tifosi aragonesi avevano accolto con iniziale entusiasmo la coppia formata dal patron AgapitoIglesias e dal presidente Eduardo Bandrés. Illusorio l’esordio con gli acquisti in grande stile (Aimar e D’Alessandro) e un piazzamento Uefa, disastroso il seguito: una retrocessione entrata nella storia come una delle più eclatanti per la sproporzione fra qualità dell’organico e risultato finale, e poi un buco nei conti aggravatosi esponenzialmente.
Se alla fine della gestione Solans il debito della società era di 63 milioni (di cui però 13 a corta scadenza), la cifra attuale è salita a 73 secondo le fonti societarie e a 124 (di cui 91 con scadenza nel 2010!) secondo altre fonti.

In tutto questo Marcelino era stato attratto nell’estate 2008 da progetti magniloquenti: non solo un ingaggio pesante, ma addirittura un progetto di Champions a lungo termine avevano convinto il tecnico asturiano a scendere ad allenare in Segunda proprio la stagione dopo la memorabile qualificazione UEFA ottenuta alla guida del Racing. Una stagione in chiaroscuro quella nella serie cadetta, perché la promozione era sentita come un atto dovuto e perché il suo Zaragoza in realtà comincia a convincere solo nel girone di ritorno.
Si avvia inoltre un distacco sempre più evidente con la dirigenza: si parte con la promessa prontamente tradita di mantenere Sergio García, Ricardo Oliveira e Diego Milito e si arriva alla recente divergenza sull’acquisto dell’attaccante, più che mai necessario dopo che l’infortunio fino a fine stagione occorso ad Uche aveva già alla seconda giornata ridotto ai minimi termini l’organico. Acquisto richiesto da Marcelino (che legava ad esso gran parte delle chances di salvezza del Zaragoza) ma continuamente rinviato dalla dirigenza, dirigenza che secondo quanto affermato da Marcelino subito dopo l’esonero aveva già messo una croce sull’allenatore quando questi non aveva compiuto una particolare scelta “consigliatagli” in estate (affermazione comunque da prendere con le molle perché soggettiva e perché Marcelino non chiarisce i contorni della vicenda, dicendo che vi sarebbero coinvolte persone terze di cui non desidera fare i nomi). A questo aggiungiamo il recente tentativo della dirigenza del Zaragoza di condizionare l’acquisto del famoso attaccante alla rinuncia da parte di Marcelino della parte rimanente del proprio contratto in caso di retrocessione: giochini e manovre che non hanno fatto altro che continuare a deviare i termini della questione, dal bene del Zaragoza (la necessità dell’attaccante) al tira-e-molla fra Marcelino e la società.


È proprio questo il punto: è chiaro che l’esonero di Marcelino non risponde a reali esigenze tecniche, ma ad esigenze quasi esclusivamente politiche, di rapporti di potere fra l’allenatore e il club. Esigenza teoricamente legittima, perché chi caccia i soldi è Agapito, ma nei fatti aliena dal buonsenso, perché non tiene in nessun conto quello che pensano tifosi e giocatori.
Intendiamoci, il Zaragoza attualmente non gioca bene e non rende, ma guardando un contesto e un orizzonte un po’più ampio le cose non sono affatto irrecuperabili: terzultimo posto sì, ma a solo un punto dalla salvezza, e basi per competere che ci sono e necessitano solamente di un lieve ritocco.
La Liga del Zaragoza era partita anche bene quanto a risultati e sensazioni, c’era una struttura tattica affidabile (il 4-4-2 corto e intenso nel pressing standardizzato da Marcelino nei suoi fortunatissimi precedenti a Huelva e Santander) oltre a buoni giocatori.
Certo, la ristrettezza della rosa non ha tardato a farsi sentire: detto di assenze lunghissime che si trascinavano dall’anno scorso nel reparto difensivo (Diogo solo sabato è tornato da un calvario di diciannove mesi; il canterano Goni invece solo poche giornate prima, il che ha costretto Marcelino a impostare per settimane una difesa con giocatori inizialmente scartati come Pavón, Pulido e Paredes, con un Ayala peraltro in declino come unica certezza), il colpo micidiale è stato l’infortunio di Ikechukwu Uchu, pupillo di Marcelino che lo lanciò in grande stile a Huelva.

L’infortunio del nigeriano ha gettato in una doppia emergenza l’attacco zaragocista. Da un lato per la scarsità di effettivi: con Ewerthon non molto apprezzato da Marcelino (che gli rimprovera una scarsissima partecipazione al di là della fase realizzativa) e con il canterano Álex Sánchez alle prime armi (ma già noto per essere il primo giocatore monco della Liga: è nato senza una mano, cosa che peraltro non gli ha mai creato alcun problema nel gioco), le chiavi son passate in esclusiva ad Arizmendi, del quale si può elogiare fino allo sfinimento il movimento senza palla e lo spirito di sacrificio, riservandosi al contempo di conservare in frigo una bella bottiglia di champagne per festeggiare ogni suo gol come meritano le ricorrenze speciali.Dall’altro lato l’infortunio ha costretto il Zaragoza a reinventare i propri movimenti offensivi: l’idea di Marcelino da Huelva in poi è sempre stata quella di un 4-4-2 senza nessuna punta centrale di riferimento, due attaccanti mobili (la giocata classica sia al Recreativo che al Racing: movimento a stringere verso il centro di un esterno di centrocampo+taglio dal centro verso l’esterno dell’attaccante) e azioni palla a terra ma rapide, subito verticali e in pochi tocchi, con una predilezione per la ripartenza (intesa nel suo significato di “contropiede corto”) rispetto al possesso-palla elaborato. Uche per caratteristiche era il giocatore chiave al fine di tradurre questa idea in realtà: con la perdita del nigeriano Arizmendi è diventato forzatamente l’unica punta, in un 4-2-3-1 che ha dovuto cercare altre vie per aprire le difese avversarie.

Inizialmente era andata anche bene con la conversione a trequartista del nuovo acquisto Aguilar, centrocampista centrale di ruolo: il colombiano ha un ottimo tempismo negli inserimenti, e buon colpo di testa. Il punto più alto è stato la convincente vittoria casalinga col Getafe, poi è iniziata la discesa. Il nuovo assetto, anche se forzato, aveva delle potenzialità interessanti data la nutrita batteria di mezzepunte ed esterni di cui gode la rosa zaragocista (il classico Jorge López, la promessa Ander Herrera, il cavallone Lafita e lo stesso Pennant, pur essendosi fin qui rivelato una sonora delusione), però alla lunga è venuta fuori tutta la mancanza di peso e di profondità. Con Lafita addirittura prima punta in alcune partite per l’assenza di Arizmendi, il Zaragoza ha finito col palleggiarsi addosso senza alcuno sbocco, pur occupando il campo con discreto ordine.
Con la serie negativa di risultati poi è venuta meno anche l’autostima, cresciuto il nervosismo e aumentati gli errori: dalla difesa (pur nel contesto di una discreta organizzazione tattica generale, mai convincente nelle sue interpretazioni particolari, addirittura tragicomica a Valencia) sino all’intera gestione delle partite. L’ultima con l’Athletic è la tipica prestazione della squadra in crisi: tanto impegno, tanto sangue agli occhi ma pochissima lucidità e compito facilitato a un Athletic venuto alla Romareda solo per difendersi e aspettare il momento in cui Muniain viene, vede e vince. Tutto questo però non giustifica una decisione precipitosa come l’esonero di Marcelino: sarebbero bastati due gol di stinco di un vecchio mestierante delle aree di rigore ingaggiato a gennaio per far girare di nuovo la ruota.

Intanto nuovo tecnico è provvisoriamente José Aurelio Gay, allenatore della squadra B e già giocatore del club negli anni ’90. Si è parlato di Schuster, il personaggio mediatico che piacerebbe ad Agapito (valla a capire la Romareda che lo contesta…), ma l’ingaggio è troppo alto; l’altra possibilità, la più probabile, è il ritorno di Víctor Muñoz, tecnico (e commentatore televisivo) di abbagliante grigiore.

Etichette:

sabato, dicembre 12, 2009

Analisi Real Sociedad.



Una delle grandi storiche, una di quelle senza le quali la Liga è meno Liga, dovrebbe essere all’anno buono per risalire dallo scomodo palcoscenico della Segunda. Questo almeno dicono i risultati, e finora lo dicono con tanto di punto esclamativo: primi in classifica dopo quindici giornate con 29 punti, sei in più del gruppo delle quarte (Betis, Elche, Numancia, Salamanca), 23 gol fatti e 15 subiti, l’Anoeta come fortino (2 pareggi iniziali e poi 6 vittorie consecutive) e l’imbattibilità nell’ultimo mese, dopo l’umiliante 5-1 incassato ad Alicante da uno spumeggiante Hercules.
Ma la freddezza delle statistiche non può esaurire un discorso che ancora, in tutta sincerità, non persuade del tutto. Il fatto è che le squadre che attualmente accompagnano la Real in zona promozione (il Cartagena e il già citato Hercules) giocano un calcio più convincente, e in quasi nessuna partita la formazione txuri-urdin ha messo sotto l’avversario dal primo minuto. Anzi, la partita di solito è girata a partire dallo sfruttamento (estremamente puntuale ed efficace, questo sì) di episodi del tutto slegati da un dominio del gioco quasi sempre inesistente. Non si sa perciò se mantenendo il livello di gioco attuale la Real possa sostenere anche a lungo termine le proprie ambizioni di promozione.
Martín Lasarte, tecnico uruguagio chiamato in estate, non sembra aver dato ancora un’identità di gioco forte e definita a questa squadra: ancorata su un 4-2-3-1 (con variazioni sul tema a seconda di chi gioca dietro la prima punta: può essere un centrocampista puro come Aranburu, una punta come Nsue o mezzepunte come Zurutuza e più raramente Xabi Prieto e Griezmann) fin troppo convenzionale e scarno, a corto di fluidità e privo di sorprese a difesa avversaria schierata. Doble pivote a centrocampo troppo rigido, poche linee di passaggio e spesso troppo scontate e orizzontali, le situazioni di superiorità possono arrivare da qualche sovrapposizione (la fascia destra è la più battuta e la più profonda, con le combinazioni fra Xabi Prieto e Dani Estrada) e dalla capacità dei solisti offensivi, particolarmente incisivi a livello di Segunda. Sebbene in genere non lo ricerchi come strategia di base (spesso ci si adatta per la miglior disposizione in campo che dimostrano avversari più in grado di fare la partita) dove questa Real fa veramente male è quando trova gli spazi per agire di rimessa, soprattutto con l’abilità di Xabi Prieto nel condurre palla al piede e la verticalità e il fiuto di Griezmann. Questa grande efficienza realizzativa, un discreto ordine in fase di ripiegamento e un reparto difensivo molto continuo e concentrato hanno fatto la differenza finora, ma non sempre potrebbero bastare.

L’orgoglio maggiore per i tifosi dell’Erreala è che il club abbia recuperato la sua anima storica: dopo alcuni sbandamenti seguiti a una politica di apertura al mercato internazionale gestita malissimo negli ultimi tempi (Do you remember Stevanovic and Fabio Felicio?), la cantera è tornata la fonte nettamente dominante nella composizione dell’organico: su 24 giocatori, ben 17 provengono dal settore giovanile, che abbiano compiuta tutta la trafila o siano stati acquistati per la squadra B o la Juvenil. Di questi, fra i sette e i nove compongono abitualmente l’undici titolare.

Altri giocatori. Portieri: Riesgo, Zubikarai. Difensori: Carlos Martínez (terzino destro), De la Bella (terzino sinistro), Sarasola (terzino sinistro), Esnaola (centrale). Centrocampisti: Markel (centrale), Sergio Rodríguez (trequartista), Johnathan Estrada (esterno sinistro). Attaccanti: Nsue (centravanti, esterno destro/sinistro), Borja Viguera.


In porta la Real vanta nel nazionale cileno Claudio Bravo un elemento non solo clamorosamente fuori categoria rispetto al contesto della Segunda, ma anche di notevole spessore internazionale.Portiere di grande personalità, molto agile e dai riflessi spettacolari, rapido e prontissimo a chiudere lo specchio nelle uscite basse, Bravo ha in più qualità sopra la media nel gioco con i piedi, che lo renderebbero particolarmente adatto anche al gioco di una squadra di vertice della massima serie (mi risulta piaccia molto a Guardiola, tanto per dire, anche se le possibilità che il Barça ne faccia un suo prossimo obiettivo di mercato sono inesistenti). Molti in Segunda invidiano la Real per il lusso che si può concedere di avere come secondo uno come Asier Riesgo, il quale tuttavia mi sembra abbia sempre goduto di una stampa migliore di quella che effettivamente meriterebbe.


Il reparto difensivo è uno dei punti di forza, non tanto per la qualità assoluta dei giocatori che lo compongono, quanto per l’intesa e la regolarità di rendimento dimostrate finora. Inamovibile il colosso Ion Ansotegi sul centro-destra, stopper vecchio stampo tecnicamente grezzissimo, assai macchinoso nei movimenti, ma in grado di farsi valere per la sobrietà, l’attenzione in marcatura, la solidità nei contrasti e la forza nel gioco aereo (che gli frutta anche qualche gol nell’area avversaria sui calci piazzati, già 3 finora). Sul centro-sinistra completa le caratteristiche di Ansotegi il capitano Labaka, difensore meno fisico ma più pulito negli interventi, più portato alla direzione del reparto e alle coperture in seconda battuta.
Centrale di ruolo ma più spesso impiegato come terzino (soprattutto a sinistra) è Mikel González, il più rapido dei tre e quindi quello più capace di adattarsi alla posizione di laterale, anche se il suo impiego sulla fascia toglie parecchia profondità all’azione d’attacco (soprattutto quando gioca a sinistra, lui che è destro). Alternativa più offensiva è De la Bella, ex di Villarreal e Sevilla Atlético, terzino sinistro di ruolo così come il ventiduenne canterano Sarasola.
A destra, l’infortunio in pretemporada di Carlos Martínez ha aperto la strada a Daniel Estrada, tornante di ruolo adattato con discreto successo alla posizione di terzino. Interpreta i movimenti difensivi correttamente, e il fresco passato da centrocampista gli permette di salire e proporsi per buoni scambi e sovrapposizioni con Xabi Prieto, tuttavia non sempre sceglie la miglior giocata, capita di vederlo sparacchiare lungo quando avrebbe invece lo spazio per portarla e fraseggiare, avendo anche dalla sua una buona progressione palla al piede. Con più convinzione può rendere ancora più forte la connessione già abbastanza fruttuosa con Xabi Prieto e, per questa via, aumentare il volume di gioco di tutta la squadra.

Punto di riferimento della mediana è Diego Rivas, centrocampista difensivo esperto e dal rendimento sicuro. Non molto dinamico né rapido, possiede però un notevole senso tattico. Non brilla nemmeno per la tecnica e le doti di palleggio, si limita a giocate corte, tuttavia protegge bene la palla e la rigioca in maniera sempre ordinata, coi tempi giusti. Non un playmaker, ma un giocatore che dà comunque serenità ai compagni.
Accanto a Diego Rivas nelle ultime partite si è affermata la promessa Elustondo, criticato nelle prime deludenti uscite stagionali della Real: più dinamismo e aggressività ma anche più visione di gioco di Rivas e gittata più lunga per aperture e cambi di gioco (oltre che per ben calibrate punizioni dalla trequarti: 5 assist finora, primatista della squadra assieme a Xabi Prieto), Elustondo può fare da riferimento davanti alla difesa ma sa anche aggiungersi all’attacco con inserimenti a sorpresa, sfruttando il buon tiro. Centrocampista centrale portato soprattutto a tenere la posizione è anche Markel Bergara, che ricordiamo già nell’Under 20 dei Cesc, Silva, Albiol e Llorente al mondiale 2005. Si alterna invece fra la posizione di mediano e quella di mezzapunta centrale il veterano Aranburu, un cursore dotato non solo di buon dinamismo ma anche di buone percussioni palla al piede.
Trequartisti di ruolo, a differenza di Aranburu, sono David Zurutuza e Sergio Rodríguez: Zurutuza, dopo la trafila fra le squadre giovanili e un anno di prestito all’Eibar (2007-2008), è a 24 anni all’esordio nella rosa della prima squadra, dove si era conquistato la titolarità prima di un infortunio che lo ha tenuto fuori fino a un paio di settimane fa imponendo a Lasarte la ricerca delle alternative già citate. Zurutuza non è un funambolo, non è capace di creare la superiorità numerica con accelerazioni o dribbling, però ha senso del gioco nei dialoghi palla a terra e sa leggere il momento in cui inserirsi a rimorchio della prima punta (2 gol in 7 partite il suo bilancio attuale) o dare l’assist, che esegue con buona precisione. Sergio Rodríguez, 31 anni e una carriera spesa soprattutto nelle serie inferiori, ha disputato solo 3 gare dall’inizio, ma è un rincalzo affidabile, con buone doti di rifinitore.


I due boss della trequarti però si chiamano Xabi Prieto e Antoine Griezmann, rispettivamente esterno destro e sinistro, ma con un peso nel gioco che va oltre quello del semplice uomo di fascia.
Con Xabi Prieto, a 26 anni ci siamo ormai arresi: è un enigma di impossibile risoluzione. Per avvicinarvici fate un esperimento mentale: prendete il vecchio Fran del Deportivo, invertitegli la fascia e il piede di preferenza, levategli la spina dorsale e al posto del sangue fategli scorrere nelle vene della camomilla… avrete un giocatore che per ogni minuto di pura delizia ve ne garantirà almeno altri di frustrante esasperazione. Un talento la cui tecnica nel controllo del pallone ha pochissimi eguali persino a livello di Primera (può domare qualunque traiettoria con qualunque parte del corpo in qualsiasi zona del campo e situazione, per non parlare di certe finte di corpo che lasciano di sale avversari e spettatori in egual misura), ma la cui partecipazione e incidenza sul destino delle partite è sempre immancabilmente molto al di sotto di quello che le sue qualità richiederebbero, cosa che fa veramente rabbia.
Detto questo, in un contesto come la Segunda la sua netta superiorità tecnica non può non fare la differenza, pur emergendo a tratti. Anche partendo dalla fascia, è lui il vero numero 10 della Real, non solo come numero di maglia, ma anche come funzioni. La capacità di tenere palla senza il minimo rischio di vedersela sottrarre ne fa un naturale polo d’attrazione per i compagni, che nell’affidargli la sfera vedono la via più agevole per salire e guadagnare metri nella metacampo avversaria. D’altronde lui è davvero un maestro nel congelare il possesso del pallone e gestire i ritmi a piacimento. Per natura è portato a questo tipo di gioco, sebbene non gli manchi la progressione per verticalizzare palla al piede o cercare il fondo e da lì mettere cross al bacio. La cronica mancanza di personalità tuttavia gli impedisce di convertirsi in leader e, in generale, giocatore “ammazza-Segunda”.
Griezmann è invece la novità più elettrizzante della stagione per i tifosi txuri-urdin, l’uomo copertina anche al di là dei pur considerevoli meriti (NON È la risposta della Real Sociedad a Muniain, chiariamolo subito). Francese inserito a 13 anni nel settore giovanile della Real, la prospettiva per lui quest’anno era il semplice passaggio dalla squadra Juvenil alla squadra B, il Sanse: invece, niente Sanse, a 18 anni direttamente in prima squadra sfruttando le difficoltà di ambientamento di uno degli acquisti estivi, il colombiano Johnathan Estrada (arrivato su espressa richiesta di Lasarte che lo ha allenato al Millonarios).
Esordio ufficiale con il Huesca alla quinta giornata e subito golazo, oltrettutto decisivo. Questo ha innescato un circolo virtuoso: fiducia totale di Lasarte, e l’Anoeta che adotta Griezmann, il quale può tentare qualunque giocata sapendo di poter comunque contare sull’appoggio del pubblico, che ne apprezza la vivacità e la sana faccia tosta dimostrate nel puntare costantemente il terzino avversario. Rapido e con un ottimo spunto sul breve, intelligente anche nei tagli senza palla, Griezmann ha un sinistro piuttosto velenoso sia nelle conclusioni a rete che nelle punizioni e nei calci d’angolo, veloci e tagliati. Dimostra un particolare fiuto per il gol (al momento 4 in 14 partite, delle quali dieci dall’inizio), con una capacità di nascondersi e aspettare il momento per colpire con freddezza non comune nei suoi colleghi di ruolo. Lo aiuta forse anche il fatto che i flussi di gioco della Real, sviluppati prevalentemente sulla fascia destra, tendano a spostare le difese avversarie verso quel lato, offrendo quindi a Griezmann la possibilità di arrivare a fari spenti sul palo opposto.
Non bisogna comunque esagerare col francese, talento ancora piuttosto acerbo, dal punto di vista sia fisico che della comprensione e partecipazione al gioco in generale.

L’attacco vive sul dualismo fra l’uruguaiano Carlos Bueno e Imanol Agirretxe per il posto di unica punta. Al momento la bilancia pende verso Bueno: Agirretxe ha più gol all’attivo, cinque, ma quattro di questi son stati realizzati nelle prime 4 giornate, mentre Bueno ha segnato due dei sue quattro gol totali nelle ultime due giornate, vantando oltrettutto una media gol/minuti nettamente migliore (solo 5 partite da titolare contro le 11 di Agirretxe). Bueno garantisce più mestiere negli ultimi metri: gran lottatore, un po’grezzo ma efficace nei movimenti in area, bravo nel conquistarsi la posizione e finalizzare. Agirretxe è più elegante e tecnico, dotato nel controllo di palla e nelle sponde, però pecca di cattiveria. Non offre sempre la profondità desiderata e troppo spesso si fa anticipare dai difensori avversari in maniera anche un po’irritante, ricordando i difetti del Llorente dell’Athletic Bilbao prima che esplodesse.
Jolly offensivo Emilio Nsue: il sottoscritto è sempre stato severo con questo giocatore in tutte le sue esperienze con le nazionali spagnole giovanili (l’ultima il mondiale Under 20 dello scorso ottobre), trovandolo inspiegabilmente sopravvalutato in sede di convocazioni. Giudizio che non mi rimangio, tuttavia l’esperienza sta dimostrando che Nsue non diventerà mai un campione ma che con la giusta collocazione tattica può rendersi utile. Le brutte figure nelle nazionali giovanili erano frutto in buona parte dell’equivoco insito nell’impiego da prima punta: attaccante generosissimo, potente, veloce ed esplosivo, di gran movimento (attacca lo spazio, svaria verso le fasce, pressa in fase di non possesso), Nsue si dimostrava però clamorosamente inadeguato come riferimento offensivo, incapace di tenere palla e di fare reparto, del tutto privo di freddezza in fase conclusiva e di istinto negli ultimi metri. Il mediocre controllo di palla poi lo rende inutile in spazi stretti. La soluzione migliore perciò è dargli metri per far valere la sua velocità e vedere la giocata sempre fronte alla porta: impiegato da seconda punta o sulla fascia (a sinistra) come nelle ultime due partite, il suo movimento sta aggiungendo una buona alternativa all’attacco gipuzkoano.

FOTO: real-sociedad-sad.es; aupaerreala.com; elpais.com

Etichette: , ,

lunedì, dicembre 07, 2009

Considerazioni sparse sulla tredicesima giornata.

Doctor Jekyll-Real e Mister Hyde-Madrid. Non ci faremo mai l’abitudine all’inquietante schizofrenia di questo Real Madrid. Non si fa a tempo a metabolizzare il primo tempo, che ha appena offerto la miglior versione stagionale dei merengues (anche meglio del Camp Nou) che subito si aprono le porte di una ripresa sconcertante, che addirittura offre a un banale Almería (l’aggettivo che meglio si addice agli andalusi da quando li ha presi in consegna Hugo Sánchez, il quale ha fatto compiere una discreta involuzione al gioiellino che fu di Emery) la possibilità concreta della vittoria. La contro-rimonta madridista, comunque strameritata, arriva con un finale tutto impeto che ricorda più che altro l’ultimo Madrid di Capello, e non è certo un complimento.
Ma, prima che la squadra si perdesse in giocate contorte e si allungasse come da consuetudine dei secondi tempi, nei primi 45 minuti avevamo visto per la prima volta il vero modello di gioco cui aspira Pellegrini. Un Villarreal ultra-velocizzato, senza riferimenti fissi per l’avversario sulla trequarti e sulle fasce, ma nel quale il ritmo lo fanno non il valzer di Marcos Senna e Riquelme, ma il rock di Cristiano Ronaldo e Xabi Alonso. In Spagna dicono “ver, tocar y mover”, ed è proprio questo che i madridisti fanno finalmente con la coordinazione giusta. Ogni giocatore occupa uno spazio solo momentaneamente per lasciarlo subito a un compagno che subentrando in corsa crea per questo molte più difficoltà di marcatura all’avversario. Se aggiungete che si gioca costantemente ad uno-due tocchi, capirete quanto sia difficile per il sistema difensivo dell’Almería stare dietro a tutto ciò e occupare il campo per tempo.
Partecipano tutti nel Real Madrid, a partire dai terzini e da Marcelo, passando per la coppia Granero-Van der Vaart che da mezzeali lasciano Xabi Alonso solo davanti alla difesa, appoggiando i portatori di palla con grande intelligenza e inserendosi poi a rimorchio degli attaccanti (l’olandese va ri-valorizzato, Granero invece fa finalmente quello che sa fare da sempre e che in questo suo ritorno alla base non aveva mostrato ancora, troppo irrigidito in una posizione di esterno destro statico). Partecipa di più persino Higuaín, che in attacco fa coppia con Cristiano Ronaldo, mina vagante fra le linee.
Un attacco succede all’altro senza respiro, difesa e centrocampo accorciano benissimo a palla persa a partire da una posizione di vantaggio (perché tutta la squadra attacca in blocco e ordinatamente nella metacampo avversaria, e quindi guadagna già le posizioni migliori per recuperare palla), e in un bombardamento continuo verso la porta del fortissimo Diego Alves, la cosa che sorprende è che il gol del vantaggio di Sergio Ramos arrivi solo al 30’. La ripresa poi è tutta un’altra storia, e ci mette il marchio pure Cristiano Ronaldo con un’espulsione stupida che lo priverà di una partita-clou come quella di Valencia.

La legge di Messi. Autorevolissimo Barça al Riazor, risultato in bilico fino all’ultimo quarto di partita, ma il pari sarebbe stato decisamente bugiardo. Il Barça è parso avere le idee più chiare già dai primi istanti del match. Non ho ben capito l’atteggiamento del Deportivo, se l’intenzione fosse quella di arroccarsi oppure di giocarsela alla pari. Ne è uscita una via di mezzo che ha spianato la strada agli ospiti.
Con le due punte del Depor Adrián e Mista molto passive in fase di non possesso (nel secondo tempo Lotina cercherà di rimediare allargando Adrián a destra e spostando Juan Rodríguez nella zona di Busquets, dal 4-4-2 al 4-2-3-1), il Barça si è trovato sempre con un uomo in più a centrocampo, e con la possibilità di far girare il pallone agevolmente. Molto decisi anche nel pressing, gli uomini di Guardiola nel primo tempo hanno trovato con molta facilità sia le giocate in profondità che la superiorità numerica sulle fasce.
Si segnala in particolare un magnifico Messi, forse galvanizzato dal Pallone d’Oro: l’argentino si inserisce tra le linee con una puntualità e un’efficacia impressionanti. A partire da qui, l’intesa con Ibrahimovic si fa sempre più solida: lo svedese non può offrire quella verticalità diretta che offriva Eto’o, ma apre altri spazi interessanti, facendo da sponda oppure creando varchi centrali con dei leggeri spostamenti laterali, nella zona fra il centrale e il terzino avversario. Sono loro due alla fine ad assicurare al Barça tre punti più sofferti del dovuto (il mezzo-gollonzo di Adrián a fine primo tempo era evitabile come quello di Toquero alla Catedral).

I quasi cinque attaccanti dell’Atlético. Come Abel poco prima dell’esonero, anche Quique nelle ultime due partite contro Espanyol e Xerez si è reso conto di un fatto: Jurado, al di là delle sue capacità assolute, è l’unica arma a disposizione del centrocampo dell’Atlético per uscire dalla trappola dell’orizzontalità. Quindi, un solo centrocampista davanti alla difesa, Assunção, e Jurado qualche metro davanti. Con Jurado ci sono anche i soliti Agüero e Forlán davanti e Simão e Reyes (che da promessa mancata cerca perlomeno di tornare alla dimensione di normale professionista) larghi rispettivamente a sinistra e a destra. Non cinque attaccanti, ma cinque sempre proiettati verso la fase offensiva sì. È attorno a questi cinque che l’Atlético deve trovare degli equilibri. Contro il povero Xerez non son costate nulla quelle fasi in cui l’Atlético si è spezzato fra questi cinque e il resto della squadra, ma sarà questo il problema che Quique dovrà risolvere per restituire davvero competitività ai colchoneros.
A mio avviso la soluzione non passa per avvicinare i cinque talenti offensivi al resto della squadra, ma viceversa. Sono difesa e centrocampo che devono accorciare in avanti: è lo stesso discorso dell’attaccare in blocco che si faceva per il Madrid del primo tempo di sabato e che si fa per ogni secondo di partita del Barça. Solo a partire da una manovra che coinvolga tutti l’Atlético potrà guadagnare posizioni nella metacampo avversario e anche difendere bene in blocco. Insomma, nessuno lo avrebbe mai detto, ma Quique insistendo su questa scelta sarà costretto da ragioni di equilibrio a giocare un calcio in tutto e per tutto offensivo. Sempre che la scelta rimanga questa, visto che il primo proposito una volta subentrato era di coprirsi con un baricentro più basso rispetto alla disastrosa difesa alta proposta da Abel.

Spazio gratuito di propaganda pro-Tenerife. Giuro che nessuno mi paga per dirlo, ma fatti una serie di calcoli (un Barça che si dosa di più rispetto alla passata stagione, i prolungati lavori in corso del Madrid, la relativa sproporzione fra i mezzi di partenza), è la squadra di Oltra quella che a mio avviso ad oggi gioca il calcio più bello di questa Liga. Tre punti fondamentali per tenersi a galla sopra la zona-retrocessione, tre punti conditi da una netta superiorità di gioco su una squadra che pure ha offerto anch’essa finora uno degli spettacoli migliori, ovvero il più che mai credibile Sporting Gijón.
In genere vedere sempre lo stesso film annoia, ma qui è l’esatto contrario: osservare la macchina macinare gioco indipendentemente dall’avversario, coi giocatori che si trovano a memoria e la palla (rigorosamente a terra) che si muove a mille all’ora per tutti i novanta minuti con un’intensità tremenda è osservare calcio allo stato puro.
Certo, è un calcio che presenta i suoi rischi (col baricentro alto se sbagli il tempo o la misura del pressing l’avversario può verticalizzare con grande facilità: è il caso del gol del vantaggio realizzato in apertura dallo Sporting, che un Diego Castro col colpo in canna ce l’ha sempre) però a lungo andare il Tenerife impone la logica del suo calcio. Anzi, c’è pure da fare i complimenti a uno Sporting che conferma l’enorme crescita difensiva rispetto alla passata stagione (la coppia di centrali Botía-Gregory è uno dei must di questa Liga): non è facile passare un’ora a rincorrere il pallone senza perdere mai l’ordine, eppure lo Sporting per lungo tempo ha concesso poche occasioni, con coperture e interventi difensivi sempre precisi.
Va aggiunto che i suoi gol il Tenerife se li deve sempre sudare sino all’ultima goccia, e questo è un handicap che ahinoi lo manterrà in zona-pericolo fino alla fine della stagione. Si conferma la carenza di talento negli ultimi metri e di giocatori che attacchino con convinzione nell’area avversaria: assoluta delusione rispetto agli standard della scorsa Segunda è stato finora l’atteso Alejandro Alfaro, innocuo tra le linee e inesistente in fase conclusiva: non a caso il Tenerife migliora e trova il gol decisivo con Nino solo quando l’ex sevillista viene spostato a destra e in attacco viene aggiunto peso affiancando a Nino un'altra punta di ruolo, il vivace Ángel. È un problema quello offensivo che andrà se non risolto attenuato (magari anche con interventi sul mercato a gennaio) per valorizzare appieno la straordinaria mole di lavoro in mediana della coppia Mikel Alonso-Ricardo, autentiche colonne portanti, e i colpi da ala vecchio stampo del divertentissimo mancino Omar.

Valencia in rampa di lancio. Al di là della prestazione, i tre punti del San Mamés offrono al Valencia l’opportunità d’oro di misurare tutta la sua credibilità di grande squadra. La prossima è in casa col Real Madrid, a soli tre punti e con la possibilità quindi di essere agguantato.
Partita strana alla Catedral, né Athletic né Valencia entrano mai appieno in gara: il Valencia ha un certo predominio territoriale e nel possesso-palla, ma scarsissima profondità; l’Athletic riesce ad andare solo a fiammate, non riesce a costruirsi i presupposti per una buona partita in contropiede (ammesso che il proposito fosse questo) e perde anche la “stampella” Llorente, sostituito in corsa da De Marcos, che per quanto interessante di ruolo è un esterno o al massimo una seconda punta.
La partita si sblocca solo nella ripresa: in una delle sue fiammate l’Athletic trova il gol (con Muniain, che oltre al gol da opportunista propone un paio di spunti favolosi: questo qui puzza di fenomeno lontano un miglio… guardate l’occasione nel finale in cui scarta Miguel: non è che lo dribbla, semplicemente lo ignora e passa oltre, che è ben diverso), ma il Valencia risponde subito con una prodezza di Villa (Pablo Hernández, che per tutta la partita si era spostato dalla sinistra verso il centro ristagnando in una posizione molto poco produttiva, fa finalmente quello che deve: tagliare senza palla per creare superiorità assieme a Joaquín, e liberarsi per il cross dal fondo). Per l’Athletic si aggiungono un secondo giallo rigoroso se non ingiusto a Koikili, e il pasticcio di Iraizoz che consegna a Mathieu la palla del gol decisivo. I baschi senza aver mai trovato davvero il filo del gioco si tengono comunque in piedi col loro enorme orgoglio, e pure in dieci si conquistano l’occasionissima per pareggiare dagli undici metri, ma la conclusione di David López (il cui impiego in assenza di Gurpegi ha ripristinato il 4-4-2 classico con due esterni di ruolo messo da parte nelle ultime giornate) si stampa sul palo.

Etichette: , , , , , , , ,