sabato, agosto 28, 2010

Una squadra quadrata. Ci sarà dell’altro?


Non è che siccome hai battuto la detentrice della Coppa dei Campioni ti devi sentire la squadra più forte d’Europa, tantomeno se ti chiami Atlético Madrid, però, aldilà anche del valore del trofeo (non eccelso, come tutte le Supercoppe), questa è una vittoria che ti fa sentire importante, di quelle dopo le quali puoi uscire di casa camminando impettito e sicuro di te. Soprattutto può favorire un consolidamento, parola che al Vicente Calderón nemmeno immaginavano esistesse nel vocabolario.

Con le sue armi, entro i propri limiti, per l’Atlético è stata una gara quasi perfetta. Messo meglio in campo, più reattivo e più ispirato anche nei solisti. Una partita cominciata nel segno di un grande equilibrio, una marmellata a centrocampo dalla quale non usciva nessuno. Poi l’Inter, assai statica e prevedibile nei movimenti offensivi, ha cominciato a perdere campo, e l’Atlético a recuperare palla sempre più lontano dalla propria porta. Azionati Reyes, Forlán e Agüero più vicino all’area avversaria, qualche piccola preoccupazione per Julio Cesar già a fine primo tempo, poi nella ripresa l’Inter perde anche le misure fra centrocampo e difesa, e l’Atlético ha le giocate tra le linee, come quella che porta al bel gol di Reyes. Eccellente l’utrerano, conferma il rinsavimento della passata stagione: anche nelle gare poco convincenti di questa pretemporada, lo si è visto entusiasta, con grande scioltezza nelle gambe e la propensione a fare quello che vuole col pallone tra i piedi. Di questo passo dovrà essere lui uno dei “nuovi acquisti” di Del Bosque.
Sbloccata la gara, l’Atlético l’ha ammazzata in contropiede. Storia vecchia, con la ciliegina della prodezza di “Van Der Gea” sul rigore di Milito: avevo storto (e continuo a storcere il naso) per il trattamento riservato ad Asenjo, però bisogna anche inchinarsi all’evidenza di un ragazzo che non sbaglia un colpo da quando Quique lo ha promosso tra i pali.

Il “miracolo” del tecnico colchonero sta nell’aver portato razionalità collettiva, ordine e organizzazione. Vedere una squadra solida, una zona rigorosa, con coperture puntuali e reparti che accorciano coi tempi giusti (esemplare Paulo Assunção), difesa anche abbastanza alta ma mai in sofferenza, fa quasi commuovere chi era abituato all’Atlético che si spezzava in due di Aguirre o a quello di Abel che faceva il fuorigioco a metacampo (e che fuorigioco! Due che avanzano e due che rimangono bloccati…) senza pressare il rifinitore avversario.
Il punto però, se si vuole ragionare estendendosi alla stagione che sta cominciando, è che sapevamo già che l’Atlético era in grado di competere in una sfida come quella di ieri. Senza il peso del dover fare la partita. Non è un vero salto di qualità. Il salto di qualità verrà quando la squadra piccola di turno, che regalerà il pallone per evitare di essere pressata sulla sua trequarti, e che starà chiusa tutta dietro, verrà superata con regolarità e in maniera convincente, e non per qualche giocata del Kun o di Reyes. Ci sarà un salto di qualità quando al primo pressing sui difensori la palla non solo non verrà buttata via, ma troverà uno sbocco verticale invece che orizzontale. Non abbiamo potuto verificare nulla di tutto questo nella gara di ieri, ma sappiamo che è questo il particolare decisivo, perché tu puoi avere lo stile di gioco che vuoi, difensivo, di rimessa, ben organizzato, ma le squadre che verranno al Calderón non te lo concederanno.

Due punti importanti: l’inizio del gioco dalla difesa e il centrocampo. Per quanto riguarda il primo aspetto, è molto promettente l’acquisto di Filipe (ieri indisponibile, sulla fascia sinistra Quique ha adattato Domínguez: speriamo sia solo un episodio, perché impiegare lì il canterano è uno spreco oltre che una forzatura , e perché non ci si può permettere un rischio come Perea, per quanto il colombiano ieri non abbia avuto sbavature vicino all’altro nuovo acquisto Godín). Il brasiliano infatti è uno di quei rari terzini che hanno un peso sulla manovra pari a quello di un centrocampista: non solo accompagnano l’ala in sovrapposizione, ma iniziano il gioco portando palla e superando con facilità la prima linea del pressing avversario. Come riesce a fare Marcelo nel Real Madrid, come faceva Alves nel Sevilla prima che il passaggio al Barça ne ridefinisse radicalmente i movimenti. Filipe nel Deportivo era praticamente metà squadra per questa sua capacità, considerando il povero centrocampo dei galiziani. Il suo innesto può risultare importante anche nell’Atlético, come supporto a centrali come Perea e Domínguez non proprio comodissimi col pallone tra i piedi (meglio Godín da questo punto di vista).
Il centrocampo presenta un doble pivote Assunção-Raúl García sempre più affiatato e preciso in fase di non possesso. Una base alla quale Quique giustamente non si sente di rinunciare, però va al tempo stesso ribadito come il loro gioco in fase di possesso rimanga comunque troppo orizzontale. E questo è uno degli aspetti nei quali obbligatoriamente l’Atlético deve crescere. Personalmente mi stuzzica l’idea di un 4-1-4-1 nel quale Forlán potrebbe adattarsi al ruolo di falso esterno (uno sforzo non impossibile da affrontare per la polivalenza e i polmoni dell’uruguaiano, apprezzati anche al mondiale), e nel quale l’innesto contemporaneo del nuovo acquisto Fran Mérida e di Jurado potrebbe arricchire la manovra. Un’ipotesi tutta personale però, visto che Fran Mérida finora è stato impiegato sulle fasce (ieri nella ripresa al posto di un acciaccato Reyes), che Jurado probabilmente sta per fare le valigie (lo Schalke offre 13 milioni: sarebbe un peccato perché si tratta di un giocatore senza omologhi nella rosa colchonera e di una carta importante a partita in corso. Però l’offerta è ghiotta, e l’Atlético come tutti ha bisogno di denaro) e soprattutto visto che Quique avendo trovato le sue certezze, seppure limitate, è comprensibilmente restio a rimetterle di nuovo in discussione.

FOTO: marca.com

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mercoledì, agosto 25, 2010

Il giocattolo si è rotto (già da due anni).

C’era una volta un club che non sbagliava un colpo. Comprava, valorizzava, vendeva, comprava di nuovo e di anno in anno non solo guadagnava denaro, ma diventava più forte. Il suo direttore sportivo, Monchi, era una specie di Re Mida, faceva diventare oro qualunque cosa. In campo, la squadra vinceva e divertiva con un gioco intenso e aggressivo.
Qualcosa però ha fatto inceppare l’ingranaggio. Conclusa la cessione di Daniel Alves nell’estate 2008, il Sevilla e Monchi praticamente non hanno più azzeccato un colpo. I giocatori acquistati non erano più così buoni, o perlomeno non lo erano abbastanza per l’élite della classifica e non erano comunque ulteriormente valorizzabili (Zokora, Negredo), altri invece si rivelavano scommesse miseramente fallite (Romaric, e prima di lui Arouna Koné), e altri ancora più semplicemente mediocri sopravvalutati (Konko). Nel frattempo, sul campo, la squadra annacquava il proprio stile di gioco fino a diventare prima insipida e poi francamente indigeribile, senza alcun cambiamento nel passaggio fra Manolo Jiménez e l’attuale tecnico Antonio Álvarez. Così succede che, fallito il ricambio, il Sevilla si trova a dipendere da un mucchio di buoni giocatori sempre più limitato (Navas), in via di logoramento (il saggio ma claudicante Kanouté, il bollito Renato) o non venduti al momento giusto, quando maggiore era l’opportunità di monetizzare (Luis Fabiano).
E ora, buttata via la qualificazione alla Champions League, il Sevilla non può più contare sugli ingressi della massima competizione europea per migliorare la propria rosa, e anzi potrebbe far fronte a un futuro ridimensionamento in caso di mancato approdo fra le prime quattro nella Liga che sta per cominciare. Eventualità da non escludere, perché se è vero che il basso livello della Liga è, a differenza dell’Europa, accessibile per questo Sevilla, è anche vero che la mediocrità nella quale da tempo ristagnano gli andalusi alla lunga potrebbe non risultare oiù sufficiente (il Villarreal potrebbe passerebbe avanti, se il calcio fosse un fatto al 100% logico), contando anche la botta al morale rappresentata da questa eliminazione. Eliminazione certamente clamorosa, ma che non può sorprendere del tutto, perché il livello di gioco del Sevilla si era già mostrato palesemente inadeguato a certi livelli già contro il CSKA la scorsa stagione, e perché la campagna acquisti effettuata non incoraggiava certo drastici miglioramenti (anche se, a scanso di equivoci, questa è una rosa che sulla carta resta da Champions League, ci mancherebbe).

Da veloce, dinamico e verticale che era con Juande Ramos, il gioco del Sevilla si è gradualmente fatto orizzontale e statico a livelli esasperanti, con una fissità da calciobalilla. Non c’è mai una situazione rigorosamente collettiva che superi la difesa avversaria, non c’è mai la sorpresa. Le uniche vie per avanzare sono: Navas che arretra fino alla linea di metacampo, prende palla e parte in velocità contro due o più difensori; Perotti che la prende sull’altra fascia e parte a zig zag accentrandosi; Kanouté o Luis Fabiano che raccolgono lanci ingestibili per il 90% degli attaccanti, li mettono giù, difendono palla fra due-tre difensori e si creano da soli l’occasione da gol. Due attaccanti del genere risultano sempre meno pericolosi non tanto per colpe loro, ma perché praticamente mai arrivano ad impattare il pallone in corsa, non hanno quasi mai una situazione favorevole, devono mettere il corpo in modo strano, inventarsi torsioni, staccare da fermo, e il fatto che il talento di finalizzatore di Luis Fabiano tiri fuori talvolta prodezze improbabili in acrobazia non fa che accentuare come la maggior parte dei cross buttati dentro dal Sevilla siano forzati, effettuati dalla trequarti tanto per vedere che effetto fa.
Il Sevilla negli ultimi anni ha sempre basato il suo gioco su esterni larghissimi e alti, un’interpretazione del 4-4-2 atipica nel calcio spagnolo, con molti cross e poco “tiqui-taca”. Il problema è che questi meccanismi hanno subito un’involuzione drammatica. Non ricordo l’ultima volta in cui il Sevilla sia riuscito a creare superiorità numerica sulla fascia senza ricorrere ai singoli, davvero. I terzini avanzano, accompagnano ma non hanno mai l’effetto-sorpresa dalla loro: il terzino avversario si prende Navas, allora sale Konko, l’esterno avversario è già piazzato e lo segue senza problemi. Al di là delle scarse capacità offensive di terzini tutti incapaci di incidere individualmente da questo punto di vista (Fernando Navarro, Konko e Dabo, che migliora Konko solo tatticamente e sul piano difensivo), la palla arriva sempre troppo lenta, e le posizioni sono troppo rigide, troppo leggibili. Non c’è mai una situazione in cui due giocatori del Sevilla attirano e smuovono da un lato le difese avversarie liberando il terzo uomo nella stessa zona o favorendo il cambio di gioco verso il lato debole avversario. Gli unici momenti interessanti arrivano in quelle occasioni in cui Navas e Perotti, gli unici con determinate capacità, si trovano a giocare sulla stessa fascia dopo gli spostamenti dell’argentino, ma sono episodi rari che non fanno parte di alcun piano sistematico.
La palla arriva lenta anche perché al centro non si combina nulla. Zokora è l’emblema delle contraddizioni del Sevilla: il giocatore più affidabile ma anche quello che al più di tutti sai che non potrà andare oltre certi limiti. Insegue avversari, ruba palla e la recapita al compagno più vicino. Nel mentre tutti gli avversari son piazzati. Romaric un disastro: fa vedere sporadicamente un buon lancio, ma si limita a sostare vicino a Zokora, non appoggia mai più avanti, non rappresenta mai un’alternativa che faccia progredire l’azione, non è mai in partita per tutti i 90 minuti, non si prende mai una responsabilità e non è mai un punto di riferimento. Cigarini, che tende a muoversi qualche metro più avanti rispetto a Zokora, ha una maggior predisposizione a far correre la palla, e anche a collegare centrocampo e attacco con passaggi verticali, ma resta un’incognita; Renato uno zombi, ormai utile soltanto per qualche gol raccattato quando gioca più vicino a Luis Fabiano che da centrocampista, dove non riesce più né a dettare i tempi né a costituire una minaccia con gli inserimenti.
Insomma, centralmente non c’è ritmo, non ci sono inserimenti e ci sono anche poche opzioni di passaggio. Qualche alternativa in più di fraseggio interno servirebbe (anche per distrarre attenzioni da Perotti e Navas sulle fasce, che restano la principale arma di questa squadra). A parte qualcosa di Kanouté, gioco tra le linee non ce n’è proprio. Chissà che non possa tornare utile il canterano Josè Carlos, in questo ruolo da mezzapunta (quello che ricopre nel Sevilla Atlético) più che da esterno di rincalzo: ieri splendido a partita in corso, ma era comunque in una situazione di anarchia che ne ha esaltato soprattutto le qualità di giocatore “di strada” (la tecnica e un favoloso sinistro). Andrebbe rivisto in contesti più ragionati, senza dimenticare comunque che prima degli acquisti di Guarente e Cigarini Álvarez lo aveva già provato da regista nelle primissime amichevoli.
In difesa le ultime ore hanno portato un cambio fra Squillaci (passato all’Arsenal) e Alexis, promessa finora non mantenuta al Valencia. Reparto che continua a scontare anche il ritardo di maturazione di Fazio, ma i problemi più gravi non risiedono certo qui.

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lunedì, agosto 02, 2010

Un piccolo Dream Team.

Mi sono divertito. Parecchio. Il risultato non è stato il migliore possibile, quello che la logica avrebbe consigliato (nella ripresa la Rojita perde il pallone e non detta più il ritmo, e la Francia padrona di casa ne approfitta), sono le conseguenze dell’inesperienza, ma questa Under 19 resterà nella memoria, ovviamente rapportata alla scala dei tornei giovanili. Del resto a questi livelli non è il risultato la cosa più importante, ma l’impronta lasciata dal talento dei giocatori in prospettiva futura. E questa è forse la più talentuosa “Under-qualchecosa” dell’ultimo decennio, bisogna dirlo. Solita ricetta di sempre, gioco d’iniziativa e possesso-palla, ma la scelta dell’undici ha dato un’impronta particolarmente creativa e spettacolare, consentita ovviamente anche dal contesto diverso rispetto a quello della nazionale maggiore.

Se nei campioni del mondo è stato l’infoltimento, talvolta eccessivo, della zona davanti alla difesa a determinare l’immagine generale, qui è avvenuto l’esatto contrario: un solo riferimento fisso in mediana e poi via libera all’ immaginazione. La straordinaria scioltezza nell’azione del centrocampo è stata la chiave. Un po’ rigidi nella gara d’esordio con la Croazia (vittoria 2-1), Oriol Romeu, Thiago Alcantara e Canales, si sono sbloccati regalando spettacolo nelle gare contro il Portogallo (altro 2-1) ma soprattutto contro Italia (3-0) e Inghilterra (3-1 in semifinale).
Mai sulla stessa linea, i tre hanno lasciato solo sulla carta il disegno di partenza del 4-2-3-1, toccando e spostandosi verso lo spazio libero, com’è giusto che sia, sempre offrendo nuove linee di passaggio. Oriol Romeu (5 presenze, 404 minuti) dei tre è il centrocampista difensivo, il “pivote” bloccato davanti alla difesa: bloccato in realtà no, perché come detto sottolineato sa interpretare molto bene i movimenti senza palla per dare continuità all’azione quando la palla ce l’ha la sua squadra.
Si è fatto il paragone con Busquets, inevitabile vista la comune militanza blaugrana e visto che Oriol Romeu sembra il principale indiziato per coprire il vuoto lasciato dalla partenza di Yaya Touré. Accettando il paragone, diciamo che Oriol Romeu pur usando intelligentemente uno-due tocchi non ha la stessa finezza di Busquets nel gioco di prima e sullo stretto né la stessa agilità nell’interpretare quelle rotazioni senza palla utili a far avanzare la manovra. In compenso, ha più forza nei contrasti e più capacità da difensore puro (può anche ricoprire il ruolo di centrale) nella propria metacampo.


Thiago Alcantara (406 min., 5 pres., 1 gol, 1 assist)
studia da Xavi: da trequartista nella cantera del Barça è stato gradualmente trasformato in mezzala sì a tuttocampo ma con responsabilità più di elaborazione nelle prime fasi della manovra che di rifinitura vicino all’area di rigore, dettando i tempi più che inventando la giocata decisiva. Qui ha fatto il secondo centrale, quello più vicino ad Oriol Romeu, ma con ampia libertà fino alla trequarti, coordinando i propri movimenti con quelli di Canales. Thiago convince sempre più e sempre più sembra pronto per il calcio di Primera perché sta progressivamente rendendo più asciutto il suo gioco, non intrattenendosi in eccesso e continuando a seguire il gioco anche senza palla dopo averla passata al compagno. Ha guadagnato presenza nelle incursioni a rimorchio dell’area di rigore, mentre agli inizi, nelle passate Under, tendeva un po’ troppo a rimanere basso quando veniva a prendersi il pallone dai difensori. E a questa razionalizzazione del suo gioco, a questa “Xavizzazione”, va aggiunto che rimangono pur sempre tutte quelle altre caratteristiche innate, la magia brasiliana (pochi hanno la sua sensibilità nel controllo e nel tocco di palla, vedere per credere il gol di Canales all’Inghilterra partito da un geniale schema su calcio piazzato), la capacità di creare dal nulla l’assist (tipo Ronaldinho) o la finta che l’avversario non si aspetta. Insomma, un potenziale fuoriclasse mondiale, non lo scopriamo certo oggi, ma è da oggi che parte la caccia del Brasile: il nuovo CT Mano Menezes gli fa la corte, e a Mazinho, campione del mondo nel ’94, brilleranno certamente gli occhi all’idea che suo figlio possa vestire la canarinha. Spetterà però a Thiago la decisione finale.
Canales (322 min., 4 pres., 1 gol, 1 assist) è un giocatore apparentemente più lineare di Thiago, più sobrio nei gesti tecnici, ma anch’esso geniale. Seppur non in tutti i frangenti (un po’ così nella prima uscita, poi scomparso nella ripresa della finale dopo un primo tempo magnifico), ha confermato le enormi qualità che hanno spinto il Real Madrid ad acquistarlo (ma ora con Pedro León, Di Maria e anche Khedira ci sarà spazio per lui? Bruciarlo sarebbe imperdonabile). Il mancino di scuola Racing è bravissimo nell’attivare quegli spazi “morti” che possono creare crepe nel sistema difensivo avversario: quelle zone un po’ fra la fascia e il centro, un po’ fra la trequarti e la mediana, che inducono gli avversari ad uscire dalla propria zona e aprire lo spazio all’inserimento di un compagno. A Canales è riuscito spesso questo giochino, di volta in volta in combutta con Thiago, Pacheco o Keko. E poi c’è la capacità di definire in un tocco, di smarcare di tacco spalle alla porta o di vedere subito il passaggio che mette il compagno davanti al portiere. Non indugia mai nei colpi da giocoliere perché l’eccellente gestione degli spazi di cui sopra e la velocità di pensiero, l’avere subito in testa la giocata successiva, glielo permettono.

Ma oltre al trio centrale, un altro giocatore è stato determinante nel rendere così ricca la manovra spagnola: Dani Pacheco (5 pres., 390 min., 4 gol, 1 assist), una perla. Destro, parte da sinistra nel trio di mezzepunte, raffinatissimo, rapido e intuitivo (“sente” il gol, ha bisogno di pochissimo spazio per indovinare l’angolo giusto: capocannoniere del torneo), grande abilità nello stretto, va via all’avversario di pura tecnica perché il fisico è un po’ esile e gli manca l’allungo. Ma oltre a questo è speciale la capacità di Pacheco di propiziare sempre piccole situazioni di superiorità numerica nella zona della palla, con movimenti intelligenti fra le linee, in appoggio ai centrocampisti o anche spostandosi verso la fascia opposta, non vagabondando a casaccio per il campo, ma sapendo leggere la situazione.
Col pallone fra i piedi poi, oltre alle magnifiche doti di palleggio, mostra ottimi tempi di gioco, riuscendo a distinguere i momenti in cui accelerare da quelli in cui temporeggiare per liberare la sovrapposizione del terzino (millimetrici i suoi passaggi nello spazio, vedi anche l’assist per il gol di Rodri in finale) o ricominciare da nuove combinazioni coi centrocampisti. Di proprietà del Liverpool (che pescò abilmente in casa Barça), l’andaluso chiede anzitutto più minuti l’anno prossimo, o al Liverpool o in prestito da qualche altra parte, e in questo caso le squadre spagnole farebbero la fila. Per quanto riguarda il suo impatto sul calcio dei grandi, è un giocatore che più che mai va inserito in un contesto favorevole alle sue caratteristiche: come detto, deve stare sempre in contatto con la sfera, non inseguirla, non contenderla nei contrasti e questo fa pensare che certe realtà della Premier potrebbero non essere le più comode (almeno questa è l’impressione, necessariamente superficiale, dopo cinque partite di quest’Europeo). Fosse dell’Arsenal, nessun problema, ma il resto va verificato.
A destra, il capitano Keko (379 min., 5 pres., 1 gol), che cercherà chances nell’Atlético dopo la mezza stagione in prestito al Valladolid. Non sul livello di quelli citati in precedenza, ma un ottimo giocatore, un esterno destro più classico, continuo e dinamico, generoso ma anche brillante e profondo palla al piede, compatto e molto rapido sul breve. Certo non coinvolto nella manovra quanto gli altri quattro centrocampisti, sa però attaccare lo spazio senza palla, anche con incisivi tagli in diagonale.
Giocatore evidentemente importante per il selezionatore Milla questo Keko, se è vero che ha relegato nel ruolo di rincalzo (comunque il rincalzo più impiegato, praticamente un dodicesimo) Iker Muniain (5 pres., 192 min.), che in questa spedizione resta uno dei più dotati. Partito da titolare solo contro l’Italia, il bilbaino si è mosso alternativamente nella posizione di esterno destro, in luogo proprio di Keko, o da mezzapunta centrale. Muniain ha confermato la sensazione di sempre, e cioè che più che di una mezzapunta da 4-2-3-1 si tratti di una seconda punta con caratteristiche abbastanza atipiche per il calcio spagnolo. Di certo non è un esterno di ruolo, perché tende sempre ad accentrarsi; e non è nemmeno un rifinitore, il suo pane sono le accelerazioni a ridosso dell’area di rigore, e continua a mostrarsi più a suo agio quando centralmente attira avversari su di sé, protegge palla e scappa via col suo baricentro basso piuttosto che quando punta il terzino partendo largo.

Nella spettacolare batteria di mezzepunte ha trovato spazio anche una sorpresa, il gitano Ezequiel Calvente (3 pres., 48 min., 1 gol), scoppiettante esterno del Betis B inaspettatamente convocato da Milla (il maggior indiziato sembrava Kiko Femenía dell’Hércules). La sua apparizione finora rappresenta più un assaggio, non abbiamo elementi sufficienti per analizzarlo a fondo, troppo ridotti gli spezzoni. Il massimo un tempo, il secondo, contro l’Italia, giocato con un’estrosa incoscienza che ha fatto stropicciare gli occhi un po’ a tutti. Non solo il singolare rigore battuto con il piede d’appoggio (gli avversari lo hanno visto come una presa in giro, io più semplicemente come una finta da applausi), ma quel modo di portare palla con la suola, molto sudamericano, e lo spunto irresistibile sul breve, un dribbling diabolico. Ora resta da vedere se: 1) i dribbling gli escono sempre così; 2, cosa più importante) se oltre ai dribbling c’è dell’altro, e cioè una lettura del gioco adeguata e buoni movimenti anche senza palla.

L’attacco ha vissuto sul dualismo fra il madridista Rodri (in realtà trasferito proprio in questi giorni al Benfica, per 6 milioni di euro, con opzione di riacquisto merengue fissata a 12 milioni), cugino di Thiago Alcantara, e Rochina del Barça. Entrambi mancini, ma con caratteristiche diverse. Titolare il primo, anche se Rochina ha trovato parecchi minuti in corsa e anche dall’inizio contro l’Italia.
Rodri (4 pres., 281 min., 2 gol, 1 assist) ha caratteristiche più da centravanti, gioca più sui due centrali, dettando la profondità o giocando spalle alla porta, mentre Rochina (5 pres., 169 min., 1 gol) è portato a svariare fuori dall’area, con tendenza a defilarsi verso la fascia, soprattutto la destra, per rientrare sul suo piede preferito. In certi frangenti svuota un po’ troppo l’area di rigore, perché sempre attirato dal contatto col pallone. Potente e dotato di grande tecnica, abile nell’uno contro uno e agile a dispetto del fisico longilineo, talvolta eccede nel ricamo, è sembrato in alcuni casi voler dimostrare a tutti i costi di essere bravo, forse spinto dalla condizione di riserva. Rodri ha uno stile più scarno ma per certi versi più concreto, offre un riferimento, non gli mancano le doti di palleggio, ha un sinistro potente e doti atletiche interessanti, in progressione e anche nello stacco aereo.

Parlando di questa Under 19 sontuosa nella gestione del pallone, non bisogna dimenticarsi del ruolo che hanno avuto anche i difensori (e persino del portiere, Álex: bravo non solo in quel paio di interventi a tu per tu coi francesi in finale, ma anche con qualità per giocare sempre in maniera utile coi piedi… scuola Barça non mente) nel favorire questa superiorità.
In primis la coppia di centrali Bartra-Pulido. Il primo, che ha già assaggiato la prima squadra del Barça (nella trasferta con l’Atlético, però da terzino destro, il suo secondo ruolo, già ricoperto all’occorrenza nel Barça Atlétic), è piaciuto parecchio: sia lui che Pulido, va detto, hanno quasi sempre giocato in situazione comoda, con gli avversari lontanissimi dall’area e la propria squadra sempre in possesso del pallone, però l’autorevolezza è emersa. Bartra (5 pres., 450 min.) ha evidenziato una buona lettura del gioco, capacità di anticiparne gli sviluppi con tempismo e talento, senso della posizione, agilità e qualità per rilanciare subito l’azione (meglio così, meglio se va in anticipo o se gioca di posizione, perché la sua figura slanciata non sembra altrettanto attrezzata per i corpo a corpo con attaccanti particolarmente fisici). Non stiamo parlando di un altro Piqué, chiaro, però anche Bartra ha mostrato quest’interessante propensione a uscire palla al piede per “provocare” gli avversari e liberare spazi per i suoi colleghi del centrocampo, molto “Made in La Masía”.
Anche Pulido (5 pres., 381 min.) la gioca in maniera pulita, il lancio per cambiare fronte è buono (forse anche meglio di Bartra, più bravo nel gioco corto), è più prestante del compagno blaugrana, ma nella sua interpretazione del ruolo sembra prevalere più la disciplina tattica e la concentrazione che il talento intuitivo fatto intravedere da Bartra.
Completano la difesa i due terzini, entrambi del Barça, in una difesa (comprendendo il portiere) per 4/5 culé. A destra, nettamente positivo Montoya (4 pres., 360 min.): non è uno di quei terzini ultra-offensivi, come Maicon, Dani Alves o anche il Sergio Ramos visto al mondiale, capaci di fare la fascia da soli e puntare anche partendo da fermo come un’ala, però legge benissimo il momento dell’inserimento, ha buon controllo in corsa ed è molto veloce palla al piede, potendosi sovrapporre sia internamente che esternamente, garantendo un discreto effetto-sorpresa. Non si sbarazza subito del pallone per buttarlo banalmente dentro l’area dalla trequarti, ma alza la testa e calibra con accettabile precisione, non rinunciando nemmeno alla conclusione in porta quando si presenta l’occasione. Difensivamente è un giocatore molto grintoso e reattivo, non facile da superare nell’uno contro uno, punta molto sull’anticipo ma qualche volta il posizionamento lascia a desiderare, come successo nel secondo tempo della finale (buchi sia da lui che da Planas). Comunque, un prospetto validissimo, e vedendolo viene da pensare che i 9 milioni spesi dal Barça per Adriano (che dovrebbe fare non solo concorrenza ad Abidal e Maxwell ma anche servire come rincalzo a destra di Alves) non fossero così necessari, così come la possibile e auspicabile integrazione in prima squadra di Thiago Alcantara, Oriol Romeu e Bartra fa pensare che un Barça con le casse non così in salute farebbe meglio a risparmiarsi ulteriori onerosi interventi sul mercato.
Chiusa la parentesi, concludiamo con Planas (5 pres., 450 min., 1 assist), che dell’undici titolare sembra in prospettiva il meno spendibile nel grande calcio: terzino sinistro corretto, senza squilli particolari.
Completano la rosa alcuni giocatori impiegati troppo poco per trarne un giudizio: il più utilizzato di questi il centrocampista centrale Koke (Atlético Madrid, 3 pres., 88 min.), il capitano dell’Under 17 terza classificata al mondiale dello scorso anno, poi il terzino destro Hugo Mallo (già titolare nel Celta in Segunda), il difensore centrale Álvaro Mayor (Zaragoza) e il portiere Aitor Fernández dell’Athletic, tutti e quattro schierati dall’inizio nella terza partita del girone contro l’Italia.

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Articolo Under 17 europeo 2008
Articolo Under 17 mondiale 2009

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