Finale Copa del Rey: presentazione Barça.
Col pretesto della finale di Copa del Rey, cogliamo l'occasione per un articolo di riepilogo e di presentazione della squadra blaugrana. Nel testo verranno citati e analizzati in dettaglio anche giocatori assenti domani come Márquez, Iniesta e Henry, proprio perchè si tratta di un pezzo di riepilogo dell'intera stagione oltre che di presentazione della finale di domani. Buona lettura, e abbiate molta pazienza per la lunghezza...
Ha bruciato le tappe Guardiola. Ci si aspettava un’annata sì al vertice, ci mancherebbe, ma anche in parte di transizione fra la vecchia rosa del Barça di Rijkaard e il nuovo progetto del Pep, che, lo ricordiamo, non ha in realtà ancora tutte le pedine che desidererebbe per sviluppare le propria idea di gioco. Con una rosa in gran parte simile a quella delle ultime due fallimentari annate, e venendo anche a patti rispetto ai primissimi propositi (Eto’o avrebbe dovuto tagliare la corda alla pari di Ronaldinho e Deco), Guardiola è riuscito anzitutto nell’impresa di rivitalizzare l’ambiente restituendo energia, entusiasmo, cattiveria. Nulla di particolarmente rivoluzionario dal punto di vista tecnico-tattico, ma una volontà di dominio che ha portato i blaugrana a risultati sensazionali, fino in fondo sui tre fronti dando spettacolo (ombre di Stamford Bridge a parte).
Il modulo non è cambiato, sempre il 4-3-3 ereditato da Rijkaard e patrimonio genetico del club dai tempi di Cruijff (in condominio col 3-3-1-3, soluzione ora decisamente più rara rispetto all’era-Cruijff: Guardiola ha utilizzato questo modulo dall’inizio solo in Champions contro lo Sporting, oltre a un assai poco convincente 3-5-2 in Ucraina contro lo Shakhtar), sono cambiati alcuni dettagli all’interno del modulo e per certi versi anche l’interpretazione dello stesso. Sempre il possesso-palla come dogma, ma con un pizzico di aggressività e verticalità in più. L’intensità è una componente imprescindibile per Guardiola, in entrambe le fasi.
Letale quando ha spazi per ribaltare l’azione, il Barça ama aggredire l’area con molti uomini a difesa avversaria schierata: mai meno di due uomini pronti a ricevere il traversone o il passaggio filtrante nell’area piccola (il centravanti e una delle due mezzeali che costantemente a turno si inserisce).
Ricerca della superiorità nella finalizzazione quindi, la quale deve essere strettamente collegata a una marcata superiorità ad inizio azione: è questo un aspetto che il Barça di Guardiola ha pure accentuato rispetto a quello di Rijkaard. I difensori come primi costruttori della manovra, perché non ha proprio senso affidarsi a rigide specializzazioni se si intende attaccare in blocco nella metacampo avversaria, altrimenti appena ti bloccano i centrocampisti non riesci a costruire più nulla. Moltiplicare le fonti di gioco per avere sempre uno sbocco dal quale far passare pulito il pallone e attivare linee di passaggio: ancora più marcato il ruolo dei difensori centrali di Guardiola perché non solo cambiano gioco verso le fasce per obbligare l’avversario ad allargare le maglie, ma perché più spesso di quanto non avvenisse nelle stagioni passate, i difensori centrali portano palla per far guadagnare metri a tutto il resto della squadra e anche per attenuare la marcatura avversaria sui centrocampisti.
Si può pure interpretare in questo senso l’insistenza di Guardiola sulla coppia Márquez-Piqué, con Puyol spesso dirottato a sinistra, anche quando il rendimento di Piqué non convinceva. I due migliori palleggiatori della difesa per avere il miglior inizio di manovra. Ad inizio azione, i due centrali partono generalmente larghissimi, per aggirare eventuali tentativi di pressing delle punte avversarie, e al tempo stesso per permettere a tutto il resto della squadra di installarsi in blocco nella metacampo avversaria. Alves si alza, le mezzeali si muovono a ridosso dell’attacco, pronte ad aggiungersi in fase conclusiva.
Se sia con Cruijff che con Van Gaal, il “4”, il regista davanti alla difesa, era la principale fonte di gioco, personificata dallo stesso Pep Guardiola giocatore, negli ultimi anni, Rijkaard compreso, questa figura ha subito una mutazione. Più stopper aggiunto che regista, più impegnato a coprire gli spazi vuoti in fase di non possesso che a elaborare l’azione. Il primo passaggio dei difensori centrali non è quasi mai indirizzato al Touré o Busquets di turno, questi intervengono soltanto successivamente, ed eventualmente, per dare continuità all’azione. Márquez (o Piqué) prova il cambio di gioco oppure serve Alves o Xavi, ma la giocata migliore è il passaggio che innesca subito Messi fra le linee. È a partire da Messi che si possono attivare al meglio sia Xavi, che deve giocare il più possibile fronte alla porta (quando si abbassa troppo per prendere palla dalla difesa, è il segnale che il Barça fatica a dare fluidità), e Alves, che allarga il campo e dà profondità a destra.
È a partire dal fittissimo dialogo fra questi tre giocatori, dalle loro combinazioni e dai costanti cambi di posizione, che il Barça costruisce la propria superiorità. Il fianco sinistro ha un peso molto più ridotto nell’elaborazione della manovra, funzionando più da “scarico” per quanto costruito dalla destra. Se a destra è Alves a preoccuparsi di dare ampiezza, sulla fascia opposta tale incombenza spetta ad Henry. Per allargare le maglie della difesa avversaria e liberare l’uno contro uno del francese, il Barça esegue in maniera ricorrente questo movimento: mentre Eto’o o chi per lui si muove fra i due difensori centrali, la mezzala sinistra (Iniesta, Gudjohnsen, Keita, Busquets) si inserisce fra il centrale e il terzino destro avversario, obbligando il terzino destro a stringere verso il centro, lasciando a Henry il tempo e lo spazio per ricevere il cambio di gioco (proveniente da Messi/Xavi oppure dal lancio di Márquez o Piqué) e puntare l’uomo. La stessa azione, in maniera speculare, può avvenire da sinistra verso destra, e in questo caso il movimento a “distrarre” il terzino avversario libera Alves, che in maniera non sporadica cerca il taglio senza palla direttamente dentro l’area avversaria (nel migliore dei casi partorendo capolavori come questo).
Una situazione meno ricorrente comunque, dato il minor peso che, come visto prima, ha il fianco sinistro nell’elaborazione della manovra. Fianco sinistro che comunque conta un po’di più da quando Guardiola negli ultimi due mesi si è deciso per l’inserimento in pianta stabile di Iniesta nel ruolo di mezzala sinistra. L’inserimento di un “jugón” del calibro di Andrés nel cuore del gioco invece che all’ala sinistra in alternativa a Henry, ha di per sé arricchito di alternative la manovra del Barça, ora più difficile da arginare rispetto a quando il solo trio Messi-Alves-Xavi monopolizzava le attenzioni avversarie.
Se il movimento a liberare Henry e Alves larghi risponde all’esigenza di scardinare difese che si schierano basse, quelle poche volte che l’avversario cerca di alzare la linea difensiva, il Barcelona cerca di giocare in controtempo, arretrando il centravanti in modo da chiamare fuori i centrali avversari e lanciare nello spazio per l’inserimento di una delle mezzeali o per il taglio in profondità dei due attaccanti esterni, specialmente Henry dalla sinistra. Una situazione di gioco della quale il Barça ha abusato nel 2-6 del Bernabéu (ma un altro esempio può essere il gol sempre di Henry nel 4-0 casalingo al Valencia), e che può essere ancora perfezionata.
Già accennato all’importanza fondamentale del movimento di Messi tra le linee. Questo è uno dei principali dettagli nei quali il 4-3-3 è variato nel passaggio da Rijkaard a Guardiola. Prima gli attaccanti esterni mantenevano una posizione esterna più pronunciata, e si accentravano spesso sì, ma solo per partire palla al piede dopo aver ricevuto palla larghi (Messi sotto Rijkaard) oppure per tagliare senza palla verso l’area (il vecchio Giuly). Ora Henry resta largo, mentre Messi molto più spesso si trova a ricevere palla in posizione già accentrata, fra il centrocampo e la difesa avversaria.
Una situazione cercata da Guardiola per introdurre un elemento di confusione nel sistema difensivo avversario togliendo punti di riferimento, e per conquistare al tempo stesso una superiorità numerica decisiva a centrocampo. Solo la vena realizzativa di Eto’o ha limitato Guardiola nell’insistere su una soluzione che si vede lontano un miglio che al tecnico blaugrana piace da matti, quella del “falso centravanti”. I due attaccanti esterni in partenza rimangono larghi, ma l’attaccante centrale (solitamente Messi, in qualche raro caso come nel 4-0 al Sevilla Iniesta) si stacca e va quasi a comporre un rombo con i tre centrocampisti. Una soluzione che, mentre espone i difensori centrali avversari alla minaccia del taglio di Henry ed Eto’o dalle fasce, toglie pressione a Xavi e Iniesta, agevolando la ragnatela di passaggi (se poi Piqué e Márquez superano già la prima linea avversaria ad inizio azione, Xavi e Iniesta respirano ancora di più). Una variante che può arricchire il gioco blaugrana in determinate circostanze, come nelle citate goleade a Madrid e Sevilla, e anche negli eccellenti primi tempi di Pamplona e Getafe.
Il Barça 2008-2009 però non sarebbe tale se non avesse ritrovato un equilibrio fra le due fasi. Sacrificio e sforzo collettivo quando il pallone ce l’ha avversario, il punto sul quale forse Guardiola ha insistito di più sin dalla pretemporada, indispensabile per rendere competitiva e “sostenibile” una struttura così offensiva. L’imperativo è evitare di essere costretti a ripiegare nella propria metacampo, dove le tre punte e la scarsa predisposizione dei centrocampisti non rendono comodo difendere. Quindi riconquistare subito il pallone, con la squadra ancora installata nella metacampo avversaria, pronta ad iniziare una nuova azione offensiva.
Pressing molto alto e aggressivo perciò: i tre attaccanti sono i primissimi difensori (e mediamente commettono più falli dei difensori), seguiti dalle due mezzeali e dal terzino che ha appena partecipato all’azione offensiva (generalmente Alves), il quale rimane altissimo, in una posizione a metà strada fra quella dell’ala e della mezzala della fascia di sua competenza. Non sempre è un pressing ordinatissimo, qualche volta è più indirizzato verso il pallone che mirato a un’esatta copertura degli spazi, però è un pressing che ha un certo impatto sulla maggioranza degli avversari. La gran parte dei difensori infatti non ha né la qualità né la personalità per uscire in palleggio e provare a eludere questa pressione, e così il Barça ottiene molte volte quello che desidera, una pronta restituzione del pallone tramite rilancio a casaccio oppure, meglio ancora, palla recuperata già sulla trequarti avversaria.
Superato però questo primo pressing però il Barça può soffrire, proprio perché la non sempre perfetta copertura degli spazi costringe a ripiegare correndo in tutta fretta verso la porta di Valdés. A questo punto più che all’organizzazione ci si affida alle doti individuali: l’allungo poderoso di Yaya Touré copre lo spazio alle spalle di Alves, mentre in seconda battuta interviene il difensore centrale destro (Márquez finchè era disponibile). Un’idea per fare male al Barça in questo caso può essere giocare con due punte che impegnino i centrali rendendo più difficili le chiusure laterali alle spalle di Alves (ma quasi sempre gli avversari del Barça giocano con una sola punta per avere un centrocampista in più in interdizione).
Qualche modifica Guardiola l’ha apportata anche sulle “palle inattive”. Rispetto all’era Rijkaard si considera maggiormente l’importanza di questi episodi per decidere una partita. Mentre gli anni scorsi il Barça batteva prevalentemente corti i calci piazzati dalla trequarti e dalle fasce, per riprendere a fare possesso-palla, quest’anno si è visto anche qualche schema più elaborato. Sui calci d’angolo non più la sola opzione del taglio di Márquez verso il primo palo (in cerca della conclusione diretta o del prolungamento verso il secondo palo), ma anche palle a centro area o verso il palo lungo che sfruttino i blocchi nell’area piccola (il gol di Puyol al Bernabéu), e, sulle punizioni, pure qualche furbata come il gol di Messi a Huelva (l’argentino parte dietro la barriera e in due tocchi viene smarcato a sorpresa a tu per tu col portiere).
Sui calci d’angolo nella propria area invece Guardiola ha implementato una marcatura a zona, quattro uomini all’altezza della linea dell’area piccola, un sistema che personalmente non adoro (anche se c’è chi l’ha applicato a meraviglia, vedi il Liverpool di Benítez o l’Almería di Emery l’anno scorso) perché esposto alle incursioni dei giocatori avversari che arrivano con maggior slancio sul pallone (mentre invece se tieni stretto l’uomo gli impedisci di arrivare con questo slancio). Non sempre impeccabile per concentrazione la difesa blaugrana in questa occasione, oltre che non particolarmente competitiva sul piano della stazza. È uno dei punti deboli dichiarati del Barça. Ed è l’aspetto al quale dovrà fare maggiore attenzione nella sfida contro l’Athletic.
Per la finale di domani, i blaugrana non hanno nulla da nascondere, sanno giocare solo in una maniera e quella cercheranno di imporre. Occupazione della metacampo avversaria e dominio del possesso-palla. Potenziare al massimo la fluidità di manovra (per questo utilizzerei Busquets al posto di Touré davanti alla difesa), alzare la linea difensiva, portare i terzini molto alti, spingere dietro tutto l’Athletic allontanando Llorente dal resto della squadra. Con la difesa molto alta, lontano dall’area avversaria e senza appoggi per le sue sponde, il centravanti basco rimane isolato. Al tempo stesso, difendere alto e recuperare il pallone lontano dall’area di Valdés diminuisce il rischio di calci piazzati nella propria trequarti e calci d’angolo, una situazione nella quale le forze fra le due squadre si eguaglierebbero (anzi, l’Athletic forse parte con un leggero vantaggio: in un certo senso, in scala minore, è lo stesso pericolo che presentava la gara col Chelsea).
Per scardinare il sistema difensivo dell’Athletic invece, insistere su Messi tra le linee perché l’Athletic tende a non coprire alla perfezione lo spazio fra difesa e centrocampo.
Possibile formazione di domani
Barça uno per uno
PORTIERI
Víctor Valdés: Mai amato fino in fondo, però un buon portiere. Non perfetto tecnicamente, con gravi lacune nelle uscite alte, ma dotato di riflessi e agilità fra i pali, sa compiere interventi spettacolari e decisivi. Stagione complessivamente sottotono, periodicamente viene messo in discussione, ma poi sa essere determinante nelle occasioni cruciali (Stamford Bridge su Drogba, e anche la finale 2006 con l’Arsenal, quando venne proclamato “Eroe di Parigi”; direi che questo compensa ampiamente le incertezze che invece favorirono l’eliminazione col Liverpool nel 2007). Portiere di personalità, vagamente spaccone, fortissimo nelle uscite basse e nell’uno contro uno con gli attaccanti. Discreto coi piedi, anche se in carriera si è già scottato con qualche confidenza di troppo (i due gol regalati a Villa nel 2005-2006, quello servito su un piatto d’argento a De la Peña quest’anno).
Pinto: Arrivato nel Gennaio 2008, ha scavalcato Jorquera come secondo, giocando tutte le gare di Copa del Rey fino alla finale (determinante nel cammino del Barça il rigore parato nel soffertissimo ritorno della semifinale col Mallorca). Premio Zamora nel 2006 col Celta, è un portiere dai notevoli riflessi, capace di interventi spettacolari e di puro istinto, un po’meno apprezzabile sul piano della pura tecnica. Pessimo nel gioco coi piedi.
Jorquera: Secondo storico fino all’infortunio e all’arrivo di Pinto nella scorsa stagione, non troppo sicuro tra i pali, utile come libero aggiunto nelle uscite basse.
DIFENSORI
Daniel Alves: Uno dei giocatori-chiave nel vertiginoso calcio offensivo blaugrana, non ha veri sostituti nella rosa (sarà questo uno dei ruoli in cui la società dovrà intervenire nel prossimo mercato). Il passaggio da Siviglia a Barcellona ha comportato un mutamento rilevante nel suo stile di gioco: a Siviglia era di fatto il regista della squadra, portava palla con ampia libertà di accentrarsi; a Barcellona, la presenza come compagno di fascia di Messi (portato anch’egli ad accentrarsi) lo ha costretto, per il bene della squadra, a un gioco più “asciutto”. Più sovrapposizioni senza palla, e movimenti prevalentemente sull’esterno: è lui a dare ampiezza sull’out destro.
Naturalmente, le caratteristiche tecniche e atletiche del giocatore restano quelle di sempre: dotato di una resistenza sbalorditiva, Alves è capace di farsi tutto il campo decine e decine di volte in una partita e, al 90’, mantenere la lucidità per tentare la giocata difficile. Gran controllo di palla e capacità di palleggio nello stretto, il brasiliano è portato per natura a cercare un dialogo costante palla a terra coi compagni più che limitarsi alla ricerca del cross. I suoi “tic”, la sua indole e il suo stile di gioco sono più quelli del centrocampista che quelli del laterale tipico. Ha un calcio secco e veloce, non sempre i cross e i tiri sono precisissimi, ma possono diventare difficili da contrastare per come la traiettoria si abbassa all’improvviso.
Difensivamente lascia un po’a desiderare, è molto reattivo nell’uno contro uno e rapido nei recuperi, ma è anche un po’ precipitoso nella scelta del tempo dell’intervento, e talvolta si fa sorprendere quando deve chiudere in diagonale sui cross dall’altra fascia. In campo è sempre sovraeccitato, sa farsi odiare come pochi per le continue sceneggiate e proteste.
Puyol: Il suo gioco si è sempre basato sull’esplosività e su riflessi fuori dal comune, per cui col passare degli anni qualche segnale di declino si vede. Qualche intervento in ritardo, non più insuperabile nell’uno contro uno, non più indiscutibile per la prima volta. Dirottato spesso a sinistra, o addirittura in alcune occasioni in panchina, da Guardiola, che gli ha messo davanti Piqué nelle gerarchie, resta comunque un giocatore importantissimo per il carisma, l’esperienza, la grinta e il mestiere difensivo che continua a evidenziare in certi salvataggi e recuperi D.O.C.
Piqué: La novità più lieta della stagione blaugrana. Figliol prodigo, da sempre accreditato di un potenziale notevole (chi lo ha seguito nelle nazionali giovanile spagnole lo sa bene, chi lo ha soltanto visto con la maglia del Manchester United un po’meno), la sua prima metà di stagione aveva suscitato non poche perplessità. Ci si chiedeva come fosse possibile che un cristone di quella stazza manifestasse tanta indecisione negli interventi, accompagnata a numerosi errori nei disimpegni, talvolta rilevanti ai fini del risultato. La svolta l’ha segnata l’amichevole Spagna-Inghilterra: prima convocazione in nazionale, del tutto immeritata, brutta prestazione… ma da quel momento Piqué non ha più sbagliato un colpo, un crescendo inarrestabile, fino a raggiungere livelli di autorevolezza quasi imbarazzanti.
Centrale prestante, ha il principale neo nella lentezza e nella visibile macchinosità dei movimenti, difetti costituzionalmente inguaribili, però guadagna sempre più punti in tutto il resto. Migliora sempre di più il piazzamento e la marcatura nel corpo a corpo con l’avversario, che agli inizi tendeva a essere un po’blanda. Fortissimo sulle palle alte in entrambe le aree, a suo agio anche nell’impostazione: di tanto in tanto rischia qualche sbavatura nei passaggi corti, però ha un cambio di gioco notevole di 40 metri, e non ha paura di avventurarsi palla al piede quando la situazione lo richiede. Notevole personalità, destinato a un ruolo di leader sia nel Barça che in nazionale.
Sylvinho: Terzino sinistro, ottimo rincalzo nelle scorse stagioni, ormai vicinissimo alla condizione di ex-giocatore, una specie di Salgado culé chiamato però agli straordinari per questo finale di stagione, vista la doppietta di squalifiche di Abidal fra finale di Copa e finale di Champions. Con l’età ha perso forza propulsiva, gli rimane una proprietà di palleggio sopra la media del ruolo, che fa sempre comodo per iniziare l’azione. Grande coordinazione nel tiro in corsa e al cross, non offre garanzie dal punto di vista difensivo, tatticamente e soprattutto fisicamente.
Cáceres: Investimento estivo pesante, ma progetto più a medio-lungo termine, Guardiola lo ha utilizzato molto poco, fino a preferirgli addirittura un improvvisato Touré difensore centrale a Stamford Bridge. Centrale (ma può essere utilizzato anche da terzino, sia a destra che a sinistra) dalle grandissime potenzialità, ma ancora da sgrezzare. Per l’esplosività, l’agilità e l’istintività ricorda Sergio Ramos: grande stacco, velocità e mezzi atletici da privilegiato, ancora non utilizzati al meglio. Deve crescere tantissimo dal punto di vista tattico e della concentrazione, tende a perdere la posizione e a lasciarsi andare a interventi scomposti e ingenui. Nelle partite giocate finora in maglia blaugrana, ha mostrato un certo impaccio quando chiamato ad impostare dalle retrovie.
Abidal: Salterà l’ultimo atto sia della Copa che della Champions. Non proprio un idolo del Camp Nou, ben difficilmente si stacca da una dignitosa sufficienza. La sua utilità, comunque da non sottovalutare, è esclusivamente difensiva. Fisicamente è un prodigio, grande elasticità ed esplosività muscolare, velocissimo nei recuperi, attento nelle chiusure diagonali in aiuto ai centrali e puntuale nel pressing. In fase di possesso invece è un giocatore del tutto alieno a ciò che richiede la filosofia di gioco del Barça: ha polmoni e corsa per sovrapporsi mille volte a partita, ma non ha tocco e nemmeno istinto offensivo. Difficilmente l’azione progredisce quando passa dai suoi piedi, la rallenta, si limita a giocate semplici e quando va al cross è spesso impreciso. Utilizzabile anche come centrale, il suo ruolo di inizio carriera, anche se è subentrata un po’ di disabitudine.
Márquez: Assenza di fine stagione, pesantissima. Il miglior difensore della Liga e uno dei migliori al mondo nell’impostare, un centrocampista in più per la sicurezza con cui avanza palla al piede e la precisione dei cambi di gioco verso le fasce. Ma non è solo questo: il messicano è anzitutto uno straordinario leader difensivo, con una lettura delle situazioni che ha pochi rivali. Non ha un fisico particolarmente prestante nè grande velocità, ma si impone sempre senza affanni, perché anticipa le intenzioni, stronca sul nascere i pericoli. Tiene la linea difensiva altissima con enorme sicurezza, accorcia, chiude e risolve numerose situazioni potenzialmente scabrose alle spalle di Alves. La magnifica scelta di tempo (anche quando stacca nell’area avversaria) frutta interventi il più delle volte pulitissimi; buon battitore di punizioni quando gli altri tiratori gli lasciano spazio (un gran gol in Copa del Rey al Mallorca).
Gabriel Milito: Infortunato tutta la stagione, non si conosce il termine preciso della sua assenza e la cosa preoccupa. La sua prima stagione era stata molto convincente: centrale mancino di personalità, a meta strada fra Márquez e Puyol come caratteristiche, gran tempismo negli anticipi, rapido sul breve ma un po’in difficoltà contro attaccanti dall’allungo poderoso. Grande elevazione, tuttavia soffre quegli attaccanti fisici che mettono il corpo fra lui e il pallone (caratteristica che lo accomuna a Puyol).
CENTROCAMPISTI
Yaya Touré: Iniezione di centimetri e muscoli nel cuore del centrocampo. Importante per la fisicità, mai pienamente convincente come creatore di gioco davanti alla difesa. Non che gli manchi la tecnica o il tocco di palla come crede qualcuno, solo gli mancano i tempi, il senso del gioco e i movimenti del classico “4” blaugrana. Spesso troppo statico nella sua zolla di campo, raramente si libera del pallone in uno-due tocchi, e talvolta ricorre a percussioni palla al piede un po’forzate per uno del suo ruolo, per quanto in alcuni casi l’effetto-sorpresa sia dalla sua. Discreto lancio profondo, ma la stazza lo rende un pochino macchinoso nei primissimi istanti della giocata. Poderoso nei contrasti, non ha un gran senso della posizione, ma la sua falcata sulla lunga distanza è molto preziosa quando si tratta di realizzare coperture delicate nella metacampo difensiva (è lui il primo “correttore” di Alves). Tremenda bordata dalla lunga distanza, in realtà il suo ruolo sarebbe quello di incursore, mezzala a tutto campo con libertà di inserirsi (dove ha messo un bel gruzzolo di gol al Monaco), ma il passaggio al Barça ha richiesto una riconversione tattica.
Xavi: La bussola è sempre al suo posto, e ci mancherebbe. Guardiola gli ha accordato una fiducia se vogliamo ancora superiore a quella di Rijkaard, spremendolo come pochi altri nella rosa e creandogli il contesto ideale per esprimere il suo miglior calcio, che in questa stagione è arrivato copioso.
Parliamo di contesto perché Xavi è un giocatore fortemente dipendente da questo: il suo calcio richiede numerose opzioni di passaggio, compagni proiettati in avanti e pronti a smarcarsi, e un baricentro della squadra molto alto, che gli consenta di concentrarsi esclusivamente sulla creazione del gioco, risparmiandogli quei ripiegamenti nella propria metacampo per i quali non è proprio portato, dal punto di vista attitudinale e atletico. Condizioni che ha ritrovato tutte quest’anno, e che gli hanno consentito di trovare con frequenza pure la via del gol (6 nella Liga), muovendosi con tanta costanza a ridosso dell’area avversaria.
Xavi è “Made in La Masia”, è impensabile in una filosofia di gioco che non sia quella blaugrana, tutta basata sul possesso-palla. La magnifica gestione del pallone (impossibile toglierglielo quando fa scudo col corpo e si gira su sé stesso), la capacità di scegliere sempre l’opzione giusta e di padroneggiare i tempi del gioco, la precisione millimetrica dei passaggi lo convertono in uno dei migliori organizzatori di gioco del calcio mondiale.
Il suo limite è questo: può gestire ma non può cambiare bruscamente copione, sa scegliere la migliore opzione ma non sa crearne di nuove dal nulla. Dipende dalla squadra e non ha la capacità di un Iniesta di risolvere individualmente. Privo di cambio di ritmo, atleticamente “demodé”, è tutto piedi e cervello. Basta e avanza.
Keita: Primo ricambio per le mezzeali (ma Guardiola in alcune occasioni lo ha adattato davanti alla difesa, o da terzino sinistro in situazioni di totale emergenza come l’inferiorità numerica di Stamford Bridge), piena sufficienza, forse leggermente meno utilizzato di quanto ci si potesse aspettare l’estate scorsa. Mancino, discreta intelligenza tattica, enorme resistenza e dinamismo, si muove fra le due aree con grande facilità di corsa. Elegante e dalle geometrie semplici ma precise, è uno specialista delle incursioni, forte di un tiro secco e potente dalla lunga distanza e di un ottimo gioco aereo. Forse il gioco del Sevilla lo esaltava di più nel suo dinamismo a tutto campo, mentre nel Barça si trova necessariamente a giocare su velocità più basse e in spazi più ristretti, senza quello slancio ideale per le sue caratteristiche.
Busquets: L’altra novità della stagione con Piqué, su livelli superbi nella fase centrale della temporada, ora tira un po’il fiato e paga l’inesperienza, fisiologico alla prima stagione da professionista (che gli ha già fruttato l’esordio in nazionale). Promettentissimo “pivote” davanti alla difesa o mezzala (il ruolo dove ha prevalentemente giocato nel Barça Atlétic con Guardiola), spiccata intelligenza tattica, a momenti sembra guidato da un radar. In fase di possesso si completa con Xavi e Iniesta meglio di quanto non faccia Touré, si libera del pallone, si muove e lascia lo spazio al compagno perché possa ricevere fronte alla porta e dare continuità alla manovra. Utilizza sempre il minimo indispensabile di tocchi, è preciso, geometrico ma anche capace di difendere il pallone e liberarsi con giocate d’alta scuola nello stretto quando viene pressato (sebbene non sia rapidissimo col pallone tra i piedi, riesce a proteggerlo bene).
Difensivamente, è superiore a Touré come senso della posizione, ma molto inferiore sul piano atletico, certi recuperi dell’ivoriano sono fuori dalla sua portata. Preferisce rubare palla con l’intuizione piuttosto che giocarsela sul corpo a corpo. Molto prezioso nel pressing quando gioca sulla linea delle mezzeali. Le sue capacità di lettura del gioco, il saper scegliere il tempo e lo spazio giusti, fanno pensare che da mezzala potrebbe pure segnare un buon numero di gol, anche se al momento non è molto portato all’inserimento offensivo.
Gudjohnsen: Dopo tre stagioni lo si può dire: bocciato. Guardiola gli ha dato una fiducia insospettabile la scorsa estate, coinvolgendolo nel turnover del centrocampo (in misura persino eccessiva se lo rapportiamo col trattamento riservato a Hleb), ma il saldo è sicuramente negativo. Troppo lineare da centrocampista per quello che è il gioco del Barça, si limita a generosità, corsa e qualche buon inserimento nell’area avversaria (è forse soprattutto quest’ultimo aspetto che ha spinto Guardiola a tenerlo in considerazione), ma giocare da centrocampista in questa squadra implica una complessità superiore, la capacità di alternare più ritmi oltre che un trattamento del pallone estremamente raffinato. Il ruolo ideale dell’islandese sarebbe quello di seconda punta (portata alla manovra e dal repertorio relativamente completo), non previsto nel modulo blaugrana.
Iniesta: Un infortunio muscolare lo ferma sul più bello, privandolo della finale di Copa del Rey e mettendolo in serio dubbio per quella di Champions, proprio quando si stava affermando come il giocatore più brillante e determinante del Barça in questo finale di stagione.
Giocatore enciclopedico, coniuga disciplina e fantasia, umiltà e ambizione, la continuità di rendimento all’estro capace di decidere le partite. Utilizzabile indifferentemente da mezzala (ma con Rijkaard anche davanti alla difesa in poche occasioni), da trequartista o da attaccante esterno nel tridente (decisamente più comodo partendo da destra che da sinistra), rappresenta l’evoluzione più offensiva del prototipo del regista di scuola Barça. Non ha mandato in pensione Xavi come previsto a suo tempo da Guardiola perché è diventato qualcosa di diverso e più grande, un giocatore non solo geometrico e dotato di visione di gioco, ma capace anche di scardinare le difese avversarie con iniziative palla al piede, di imprimere l’accelerazione decisiva sulla trequarti. È il primo controllo, forse nemmeno inferiore a quello di Messi per nitidezza, a fare la differenza nel suo calcio: quello gli regala un vantaggio decisivo sugli avversari, e l’opportunità di sbucare anche negli spazi più angusti. Micidiale quando buca la seconda linea avversaria in percussione, un tormento per i terzini quando parte largo, perché in corsa muove costantemente il pallone tenendolo incollato e non sai mai da che lato cercherà di dribblare. Ha uno spunto esplosivo nei primi metri, ed è più forte e resistente di quanto possa sembrare a prima vista. Grande visione di gioco, grandi intuizioni in rifinitura, ma eccessivo altruismo quando si tratta di finalizzare. Non irresistibile nemmeno il tiro e il calcio a lunga gittata: il golazo di Stamford Bridge in questo senso rappresenta una felicissima eccezione.
Víctor Sánchez: Canterano sperimentato nelle tre competizioni, un tuttofare, indifferentemente mezzala, difensore centrale e terzino destro. Per quel poco visto, non ha convinto: dinamismo sì, duttilità e intelligenza tattica anche, ma piedi e visione di gioco insufficienti.
ATTACCANTI
Messi: Il finale di stagione poco brillante, un po’col fiatone, non può far passare in secondo piano il ruolo DOMINANTE rivestito. Senza infortuni di mezzo, uno show continuo che ne ha segnato la maturazione definitiva, se non il miglior giocatore del mondo siamo lì. Sottolineo “giocatore”: è in questa stagione infatti che Messi ha completato la trasformazione da solista già devastante (nessuno ha il suo dribbling, proprio nessuno, è capace di far fuori da solo un’intera difesa schierata, è questo sostanzialmente l’aspetto che ha giustificato il paragone con Maradona) in uomo-squadra completo, capace non solo di fare la voce grossa in zona-gol (23 gol in Liga, 8 in Champions, momentaneo capocannoniere, 5 in Copa del Rey), ma anche di capire che delle volte un movimento intelligente o un semplice tocco nel momento e nella zona di campo giusta può essere più efficace di una sfilza interminabile di dribbling. Guardiola gli ha ritagliato un ruolo di maggior responsabilità sulla trequarti: non è più soltanto un attaccante che parte dalla destra e si gioca l’uno contro uno, ma cerca una posizione fra le linee a partire dalla quale combinare coi centrocampisti e rifinire per gli altri attaccanti. Può tuttavia ancora migliorare nella finalizzazione: il tocco di palla non è maradoniano ma è comunque di prim’ordine, e un giocatore della sua classe dovrebbe optare molto di più per la conclusione di precisione invece che per la pura potenza, come ancora troppo spesso Messi fa.
Eto’o: Non era previsto in questo Barça 2008-2009, Guardiola lo voleva tagliare, ma i compagni hanno spinto forte per la sua permanenza e il tecnico ha ripiegato sul buonsenso, conscio del fatto che sul mercato è molto difficile trovare pari garanzie realizzative. Sono arrivate caterve di gol, 28 nella Liga finora, accompagnate però a una strana sensazione: per la prima volta da quando è al Barça, Eto’o davvero non pare più così imprescindibile. Aumentano i gol ma paradossalmente diminusice nettamente l’incidenza sul gioco rispetto agli altri anni: sempre più estraneo alla manovra (spesso a partita in corso gli viene preferito un falso centravanti come Messi per ottenere un maggior dialogo col centrocampo), in questa stagione il suo contributo, pure importantissimo, si è limitato alla sola apparizione in zona-gol. Resta comunque un animale offensivo di rara pericolosità: l’ipervelocità lo rende letale per ogni difesa che provi ad alzarsi appena, la verticalità e profondità che imprime negli ultimi metri sono devastanti. Non un finissimo palleggiatore ma tecnicamente a posto, il suo è un calcio di contagiosa istintività: mezzo metro e si inventa una conclusione di prima intenzione che ti incenerisce, agilità da coguaro e rapidità da cobra. Al di là del dato tecnico, il suo vero valore aggiunto è sempre stato l’ambizione: un giocatore incredibilmente competitivo, talvolta sgradevole in certi suoi eccessi, ma che prende sempre di petto le situazioni. Grande spirito di sacrificio, primo difensore per il pressing incessante che porta sull’inizio dell’azione avversaria.
Bojan: In via di maturazione, non va caricato di responsabilità ma gli va tenuto sempre aperto uno spiraglio per un posto da titolare in futuro, come è stato per Iniesta qualche anno addietro. Stagione non facile, dopo la prima da professionista in cui tutto è rose e fiori, la seconda per i giovanissimi prevede quasi sempre una flessione. A disagio per lo scarsissimo utilizzo e abbastanza impacciato nei primi mesi (eccetto la tripletta di Basilea in Champions), ha avuto invece un ruolo di rilievo in Copa del Rey, sempre titolare e con 4 gol. Per questo dovrebbe essere premiato col posto da titolare nella finale con l’Athletic, oltre che per le assenze di Henry e Iniesta.
Bojan ha talento e intuito negli ultimi metri, ma è ancora un po’troppo acerbo per pesare sulle partite come si deve. Ha migliorato negli ultimi mesi la partecipazione alla manovra, è mobile e intelligente nel cercarsi lo spazio e nello scegliere il tempo per scattare sul filo del fuorigioco, ma perde quasi sempre il contrasto col difensore avversario e viene recuperato con relativa facilità sulla lunga distanza. Buono tecnicamente, rapido nell’esecuzione, deve guadagnare potenza anche al tiro. Opportunista, mediocre gioco aereo. Adattato spesso alla posizione di attaccante esterno, non è un ruolo che gli si confà (gli manca il dribbling secco da fermo).
Hleb: La scommessa persa. Investimento pesante, vanificato da una gestione poco comprensibile da parte di Guardiola. Lo conoscevamo all’Arsenal come un centrocampista offensivo che ama restare sempre nel vivo del gioco, ma la scelta di Guardiola di emarginarlo all’ala, ora come rincalzo di Messi a destra ora come terza scelta a sinistra, lo ha fortemente penalizzato, fino a farlo diventare in pratica un uomo in meno nella rosa. Davvero non si capisce com’è che Guardiola non lo abbia MAI provato dal primo minuto nel ruolo di mezzala (di Hleb in posizione centrale, si ricorda soltanto una buona prestazione da falso centravanti nel 4-0 casalingo al Valencia), sarebbe stata una carta in più nel turnover, un’alternativa di livello per dipendere meno da Iniesta.
Da parte sua il bielorusso ci ha messo un certo conformismo, confermando un carattere non proprio di ferro, lasciandosi trascinare da questa situazione e offrendo prestazioni il più delle volte mediocri. Non ha trovato una sintonia con gli altri palleggiatori blaugrana, gioca sempre a mille all’ora, a testa bassa, quando invece il gioco del Barça esige più “pausa”. Spesso fa la scelta sbagliata, va in azione personale quando non deve o cerca il passaggio quando invece occorre affondare, sintomo di confusione e mancanza di serenità. Peccato perché le caratteristiche del giocatore sono più che mai “da Barça”(rafforzate anche dall’esperienza all’Arsenal, dove si gioca un calcio simile): grande velocità, resistenza e generosità, Hleb si esalta nel dialogo palla a terra, svariando su tutta la trequarti. Capace di percussioni palla al piede molto insidiose, pecca quasi sempre al momento della conclusione, o per eccesso di altruismo oppure per la debolezza del tiro (è destro, ma calcia male anche con l’altro piede).
Henry: Assente nella finale di Copa del Rey, incerto per quella di Champions. Ricostruito nel morale da Guardiola dopo la prima grigia stagione in maglia blaugrana, ha finito col diventare un giocatore importantissimo nella sua nuova dimensione di gregario di lusso. Diciannove gol in campionato, cinque in Champions, ma ciò che più conta, la capacità di adattarsi alle esigenze della squadra. Ciò che è richiesto all’Henry del Barça si differenzia nettamente rispetto a ciò che era richiesto all’Henry dell’Arsenal: lì era la punta più avanzata, con libertà di svariare, spesso si allargava a sinistra per cercarsi l’uno contro uno e le occasioni migliori; al Barça gioca sempre a sinistra, ma ha l’obbligo di fare la fascia, arriva in area di rigore con molti più metri nelle gambe, e ha consegne tattiche molto più rigide. È lui a dover restare sempre largo per aprire la difesa avversaria: questo gli toglie chances per brillare un po’di più in zona-gol, ma beneficia l’azione offensiva nel suo complesso. È inoltre sempre lui a dover ripiegare come un tornante quando la fase di non possesso lo richiede, compito che sbriga con ammirevole dedizione.
Ha perso i picchi di velocità incontenibile dei tempi migliori, ma resta un giocatore molto pericoloso quando ha l’opportunità di puntare l’avversario in dribbling. Dal vertice sinistro dell’area di rigore, la sua azione classica prevede due alternative: o fintare il tiro e andare via sul sinistro per cercare il fondo, oppure l’amatissima conclusione a girare verso il secondo palo con l’interno del destro. Poderoso allungo, grande eleganza nella corsa e nel gesto tecnico, qualche défaillance di troppo invece davanti al portiere: i gol sono tanti, ma anche le occasioni sbagliate non scherzano, un po’perché arriva a corto di lucidità in zona-gol, un po’perché al contrario di Messi abusa della conclusione morbida a scapito della concretezza.
Pedro: Conosciuto fino alla scorsa stagione come “Pedrito”, il 21enne canario ha trovato spazio da titolare nel preliminare di Champions, nella partita di ritorno della fase a gironi con lo Shakhtar e in due gare di Liga contro Racing e Valladolid. Guardiola se l’è tenuto come ultima opzione offensiva perché unica ala di ruolo in tutta la rosa. Senza sbalordire, Pedro fa il suo: parte largo, detta il passaggio in profondità, si smarca senza palla e ha un buon uno contro uno. Leggero e molto rapido nel gioco di gambe sul breve, ha il vantaggio di essere praticamente ambidestro, quindi ha sempre due lati sui quali poter rientrare. Nel giro dell’Under 21.
Ha bruciato le tappe Guardiola. Ci si aspettava un’annata sì al vertice, ci mancherebbe, ma anche in parte di transizione fra la vecchia rosa del Barça di Rijkaard e il nuovo progetto del Pep, che, lo ricordiamo, non ha in realtà ancora tutte le pedine che desidererebbe per sviluppare le propria idea di gioco. Con una rosa in gran parte simile a quella delle ultime due fallimentari annate, e venendo anche a patti rispetto ai primissimi propositi (Eto’o avrebbe dovuto tagliare la corda alla pari di Ronaldinho e Deco), Guardiola è riuscito anzitutto nell’impresa di rivitalizzare l’ambiente restituendo energia, entusiasmo, cattiveria. Nulla di particolarmente rivoluzionario dal punto di vista tecnico-tattico, ma una volontà di dominio che ha portato i blaugrana a risultati sensazionali, fino in fondo sui tre fronti dando spettacolo (ombre di Stamford Bridge a parte).
Il modulo non è cambiato, sempre il 4-3-3 ereditato da Rijkaard e patrimonio genetico del club dai tempi di Cruijff (in condominio col 3-3-1-3, soluzione ora decisamente più rara rispetto all’era-Cruijff: Guardiola ha utilizzato questo modulo dall’inizio solo in Champions contro lo Sporting, oltre a un assai poco convincente 3-5-2 in Ucraina contro lo Shakhtar), sono cambiati alcuni dettagli all’interno del modulo e per certi versi anche l’interpretazione dello stesso. Sempre il possesso-palla come dogma, ma con un pizzico di aggressività e verticalità in più. L’intensità è una componente imprescindibile per Guardiola, in entrambe le fasi.
Letale quando ha spazi per ribaltare l’azione, il Barça ama aggredire l’area con molti uomini a difesa avversaria schierata: mai meno di due uomini pronti a ricevere il traversone o il passaggio filtrante nell’area piccola (il centravanti e una delle due mezzeali che costantemente a turno si inserisce).
Ricerca della superiorità nella finalizzazione quindi, la quale deve essere strettamente collegata a una marcata superiorità ad inizio azione: è questo un aspetto che il Barça di Guardiola ha pure accentuato rispetto a quello di Rijkaard. I difensori come primi costruttori della manovra, perché non ha proprio senso affidarsi a rigide specializzazioni se si intende attaccare in blocco nella metacampo avversaria, altrimenti appena ti bloccano i centrocampisti non riesci a costruire più nulla. Moltiplicare le fonti di gioco per avere sempre uno sbocco dal quale far passare pulito il pallone e attivare linee di passaggio: ancora più marcato il ruolo dei difensori centrali di Guardiola perché non solo cambiano gioco verso le fasce per obbligare l’avversario ad allargare le maglie, ma perché più spesso di quanto non avvenisse nelle stagioni passate, i difensori centrali portano palla per far guadagnare metri a tutto il resto della squadra e anche per attenuare la marcatura avversaria sui centrocampisti.
Si può pure interpretare in questo senso l’insistenza di Guardiola sulla coppia Márquez-Piqué, con Puyol spesso dirottato a sinistra, anche quando il rendimento di Piqué non convinceva. I due migliori palleggiatori della difesa per avere il miglior inizio di manovra. Ad inizio azione, i due centrali partono generalmente larghissimi, per aggirare eventuali tentativi di pressing delle punte avversarie, e al tempo stesso per permettere a tutto il resto della squadra di installarsi in blocco nella metacampo avversaria. Alves si alza, le mezzeali si muovono a ridosso dell’attacco, pronte ad aggiungersi in fase conclusiva.
Se sia con Cruijff che con Van Gaal, il “4”, il regista davanti alla difesa, era la principale fonte di gioco, personificata dallo stesso Pep Guardiola giocatore, negli ultimi anni, Rijkaard compreso, questa figura ha subito una mutazione. Più stopper aggiunto che regista, più impegnato a coprire gli spazi vuoti in fase di non possesso che a elaborare l’azione. Il primo passaggio dei difensori centrali non è quasi mai indirizzato al Touré o Busquets di turno, questi intervengono soltanto successivamente, ed eventualmente, per dare continuità all’azione. Márquez (o Piqué) prova il cambio di gioco oppure serve Alves o Xavi, ma la giocata migliore è il passaggio che innesca subito Messi fra le linee. È a partire da Messi che si possono attivare al meglio sia Xavi, che deve giocare il più possibile fronte alla porta (quando si abbassa troppo per prendere palla dalla difesa, è il segnale che il Barça fatica a dare fluidità), e Alves, che allarga il campo e dà profondità a destra.
È a partire dal fittissimo dialogo fra questi tre giocatori, dalle loro combinazioni e dai costanti cambi di posizione, che il Barça costruisce la propria superiorità. Il fianco sinistro ha un peso molto più ridotto nell’elaborazione della manovra, funzionando più da “scarico” per quanto costruito dalla destra. Se a destra è Alves a preoccuparsi di dare ampiezza, sulla fascia opposta tale incombenza spetta ad Henry. Per allargare le maglie della difesa avversaria e liberare l’uno contro uno del francese, il Barça esegue in maniera ricorrente questo movimento: mentre Eto’o o chi per lui si muove fra i due difensori centrali, la mezzala sinistra (Iniesta, Gudjohnsen, Keita, Busquets) si inserisce fra il centrale e il terzino destro avversario, obbligando il terzino destro a stringere verso il centro, lasciando a Henry il tempo e lo spazio per ricevere il cambio di gioco (proveniente da Messi/Xavi oppure dal lancio di Márquez o Piqué) e puntare l’uomo. La stessa azione, in maniera speculare, può avvenire da sinistra verso destra, e in questo caso il movimento a “distrarre” il terzino avversario libera Alves, che in maniera non sporadica cerca il taglio senza palla direttamente dentro l’area avversaria (nel migliore dei casi partorendo capolavori come questo).
Una situazione meno ricorrente comunque, dato il minor peso che, come visto prima, ha il fianco sinistro nell’elaborazione della manovra. Fianco sinistro che comunque conta un po’di più da quando Guardiola negli ultimi due mesi si è deciso per l’inserimento in pianta stabile di Iniesta nel ruolo di mezzala sinistra. L’inserimento di un “jugón” del calibro di Andrés nel cuore del gioco invece che all’ala sinistra in alternativa a Henry, ha di per sé arricchito di alternative la manovra del Barça, ora più difficile da arginare rispetto a quando il solo trio Messi-Alves-Xavi monopolizzava le attenzioni avversarie.
Se il movimento a liberare Henry e Alves larghi risponde all’esigenza di scardinare difese che si schierano basse, quelle poche volte che l’avversario cerca di alzare la linea difensiva, il Barcelona cerca di giocare in controtempo, arretrando il centravanti in modo da chiamare fuori i centrali avversari e lanciare nello spazio per l’inserimento di una delle mezzeali o per il taglio in profondità dei due attaccanti esterni, specialmente Henry dalla sinistra. Una situazione di gioco della quale il Barça ha abusato nel 2-6 del Bernabéu (ma un altro esempio può essere il gol sempre di Henry nel 4-0 casalingo al Valencia), e che può essere ancora perfezionata.
Già accennato all’importanza fondamentale del movimento di Messi tra le linee. Questo è uno dei principali dettagli nei quali il 4-3-3 è variato nel passaggio da Rijkaard a Guardiola. Prima gli attaccanti esterni mantenevano una posizione esterna più pronunciata, e si accentravano spesso sì, ma solo per partire palla al piede dopo aver ricevuto palla larghi (Messi sotto Rijkaard) oppure per tagliare senza palla verso l’area (il vecchio Giuly). Ora Henry resta largo, mentre Messi molto più spesso si trova a ricevere palla in posizione già accentrata, fra il centrocampo e la difesa avversaria.
Una situazione cercata da Guardiola per introdurre un elemento di confusione nel sistema difensivo avversario togliendo punti di riferimento, e per conquistare al tempo stesso una superiorità numerica decisiva a centrocampo. Solo la vena realizzativa di Eto’o ha limitato Guardiola nell’insistere su una soluzione che si vede lontano un miglio che al tecnico blaugrana piace da matti, quella del “falso centravanti”. I due attaccanti esterni in partenza rimangono larghi, ma l’attaccante centrale (solitamente Messi, in qualche raro caso come nel 4-0 al Sevilla Iniesta) si stacca e va quasi a comporre un rombo con i tre centrocampisti. Una soluzione che, mentre espone i difensori centrali avversari alla minaccia del taglio di Henry ed Eto’o dalle fasce, toglie pressione a Xavi e Iniesta, agevolando la ragnatela di passaggi (se poi Piqué e Márquez superano già la prima linea avversaria ad inizio azione, Xavi e Iniesta respirano ancora di più). Una variante che può arricchire il gioco blaugrana in determinate circostanze, come nelle citate goleade a Madrid e Sevilla, e anche negli eccellenti primi tempi di Pamplona e Getafe.
Il Barça 2008-2009 però non sarebbe tale se non avesse ritrovato un equilibrio fra le due fasi. Sacrificio e sforzo collettivo quando il pallone ce l’ha avversario, il punto sul quale forse Guardiola ha insistito di più sin dalla pretemporada, indispensabile per rendere competitiva e “sostenibile” una struttura così offensiva. L’imperativo è evitare di essere costretti a ripiegare nella propria metacampo, dove le tre punte e la scarsa predisposizione dei centrocampisti non rendono comodo difendere. Quindi riconquistare subito il pallone, con la squadra ancora installata nella metacampo avversaria, pronta ad iniziare una nuova azione offensiva.
Pressing molto alto e aggressivo perciò: i tre attaccanti sono i primissimi difensori (e mediamente commettono più falli dei difensori), seguiti dalle due mezzeali e dal terzino che ha appena partecipato all’azione offensiva (generalmente Alves), il quale rimane altissimo, in una posizione a metà strada fra quella dell’ala e della mezzala della fascia di sua competenza. Non sempre è un pressing ordinatissimo, qualche volta è più indirizzato verso il pallone che mirato a un’esatta copertura degli spazi, però è un pressing che ha un certo impatto sulla maggioranza degli avversari. La gran parte dei difensori infatti non ha né la qualità né la personalità per uscire in palleggio e provare a eludere questa pressione, e così il Barça ottiene molte volte quello che desidera, una pronta restituzione del pallone tramite rilancio a casaccio oppure, meglio ancora, palla recuperata già sulla trequarti avversaria.
Superato però questo primo pressing però il Barça può soffrire, proprio perché la non sempre perfetta copertura degli spazi costringe a ripiegare correndo in tutta fretta verso la porta di Valdés. A questo punto più che all’organizzazione ci si affida alle doti individuali: l’allungo poderoso di Yaya Touré copre lo spazio alle spalle di Alves, mentre in seconda battuta interviene il difensore centrale destro (Márquez finchè era disponibile). Un’idea per fare male al Barça in questo caso può essere giocare con due punte che impegnino i centrali rendendo più difficili le chiusure laterali alle spalle di Alves (ma quasi sempre gli avversari del Barça giocano con una sola punta per avere un centrocampista in più in interdizione).
Qualche modifica Guardiola l’ha apportata anche sulle “palle inattive”. Rispetto all’era Rijkaard si considera maggiormente l’importanza di questi episodi per decidere una partita. Mentre gli anni scorsi il Barça batteva prevalentemente corti i calci piazzati dalla trequarti e dalle fasce, per riprendere a fare possesso-palla, quest’anno si è visto anche qualche schema più elaborato. Sui calci d’angolo non più la sola opzione del taglio di Márquez verso il primo palo (in cerca della conclusione diretta o del prolungamento verso il secondo palo), ma anche palle a centro area o verso il palo lungo che sfruttino i blocchi nell’area piccola (il gol di Puyol al Bernabéu), e, sulle punizioni, pure qualche furbata come il gol di Messi a Huelva (l’argentino parte dietro la barriera e in due tocchi viene smarcato a sorpresa a tu per tu col portiere).
Sui calci d’angolo nella propria area invece Guardiola ha implementato una marcatura a zona, quattro uomini all’altezza della linea dell’area piccola, un sistema che personalmente non adoro (anche se c’è chi l’ha applicato a meraviglia, vedi il Liverpool di Benítez o l’Almería di Emery l’anno scorso) perché esposto alle incursioni dei giocatori avversari che arrivano con maggior slancio sul pallone (mentre invece se tieni stretto l’uomo gli impedisci di arrivare con questo slancio). Non sempre impeccabile per concentrazione la difesa blaugrana in questa occasione, oltre che non particolarmente competitiva sul piano della stazza. È uno dei punti deboli dichiarati del Barça. Ed è l’aspetto al quale dovrà fare maggiore attenzione nella sfida contro l’Athletic.
Per la finale di domani, i blaugrana non hanno nulla da nascondere, sanno giocare solo in una maniera e quella cercheranno di imporre. Occupazione della metacampo avversaria e dominio del possesso-palla. Potenziare al massimo la fluidità di manovra (per questo utilizzerei Busquets al posto di Touré davanti alla difesa), alzare la linea difensiva, portare i terzini molto alti, spingere dietro tutto l’Athletic allontanando Llorente dal resto della squadra. Con la difesa molto alta, lontano dall’area avversaria e senza appoggi per le sue sponde, il centravanti basco rimane isolato. Al tempo stesso, difendere alto e recuperare il pallone lontano dall’area di Valdés diminuisce il rischio di calci piazzati nella propria trequarti e calci d’angolo, una situazione nella quale le forze fra le due squadre si eguaglierebbero (anzi, l’Athletic forse parte con un leggero vantaggio: in un certo senso, in scala minore, è lo stesso pericolo che presentava la gara col Chelsea).
Per scardinare il sistema difensivo dell’Athletic invece, insistere su Messi tra le linee perché l’Athletic tende a non coprire alla perfezione lo spazio fra difesa e centrocampo.
Possibile formazione di domani
Barça uno per uno
PORTIERI
Víctor Valdés: Mai amato fino in fondo, però un buon portiere. Non perfetto tecnicamente, con gravi lacune nelle uscite alte, ma dotato di riflessi e agilità fra i pali, sa compiere interventi spettacolari e decisivi. Stagione complessivamente sottotono, periodicamente viene messo in discussione, ma poi sa essere determinante nelle occasioni cruciali (Stamford Bridge su Drogba, e anche la finale 2006 con l’Arsenal, quando venne proclamato “Eroe di Parigi”; direi che questo compensa ampiamente le incertezze che invece favorirono l’eliminazione col Liverpool nel 2007). Portiere di personalità, vagamente spaccone, fortissimo nelle uscite basse e nell’uno contro uno con gli attaccanti. Discreto coi piedi, anche se in carriera si è già scottato con qualche confidenza di troppo (i due gol regalati a Villa nel 2005-2006, quello servito su un piatto d’argento a De la Peña quest’anno).
Pinto: Arrivato nel Gennaio 2008, ha scavalcato Jorquera come secondo, giocando tutte le gare di Copa del Rey fino alla finale (determinante nel cammino del Barça il rigore parato nel soffertissimo ritorno della semifinale col Mallorca). Premio Zamora nel 2006 col Celta, è un portiere dai notevoli riflessi, capace di interventi spettacolari e di puro istinto, un po’meno apprezzabile sul piano della pura tecnica. Pessimo nel gioco coi piedi.
Jorquera: Secondo storico fino all’infortunio e all’arrivo di Pinto nella scorsa stagione, non troppo sicuro tra i pali, utile come libero aggiunto nelle uscite basse.
DIFENSORI
Daniel Alves: Uno dei giocatori-chiave nel vertiginoso calcio offensivo blaugrana, non ha veri sostituti nella rosa (sarà questo uno dei ruoli in cui la società dovrà intervenire nel prossimo mercato). Il passaggio da Siviglia a Barcellona ha comportato un mutamento rilevante nel suo stile di gioco: a Siviglia era di fatto il regista della squadra, portava palla con ampia libertà di accentrarsi; a Barcellona, la presenza come compagno di fascia di Messi (portato anch’egli ad accentrarsi) lo ha costretto, per il bene della squadra, a un gioco più “asciutto”. Più sovrapposizioni senza palla, e movimenti prevalentemente sull’esterno: è lui a dare ampiezza sull’out destro.
Naturalmente, le caratteristiche tecniche e atletiche del giocatore restano quelle di sempre: dotato di una resistenza sbalorditiva, Alves è capace di farsi tutto il campo decine e decine di volte in una partita e, al 90’, mantenere la lucidità per tentare la giocata difficile. Gran controllo di palla e capacità di palleggio nello stretto, il brasiliano è portato per natura a cercare un dialogo costante palla a terra coi compagni più che limitarsi alla ricerca del cross. I suoi “tic”, la sua indole e il suo stile di gioco sono più quelli del centrocampista che quelli del laterale tipico. Ha un calcio secco e veloce, non sempre i cross e i tiri sono precisissimi, ma possono diventare difficili da contrastare per come la traiettoria si abbassa all’improvviso.
Difensivamente lascia un po’a desiderare, è molto reattivo nell’uno contro uno e rapido nei recuperi, ma è anche un po’ precipitoso nella scelta del tempo dell’intervento, e talvolta si fa sorprendere quando deve chiudere in diagonale sui cross dall’altra fascia. In campo è sempre sovraeccitato, sa farsi odiare come pochi per le continue sceneggiate e proteste.
Puyol: Il suo gioco si è sempre basato sull’esplosività e su riflessi fuori dal comune, per cui col passare degli anni qualche segnale di declino si vede. Qualche intervento in ritardo, non più insuperabile nell’uno contro uno, non più indiscutibile per la prima volta. Dirottato spesso a sinistra, o addirittura in alcune occasioni in panchina, da Guardiola, che gli ha messo davanti Piqué nelle gerarchie, resta comunque un giocatore importantissimo per il carisma, l’esperienza, la grinta e il mestiere difensivo che continua a evidenziare in certi salvataggi e recuperi D.O.C.
Piqué: La novità più lieta della stagione blaugrana. Figliol prodigo, da sempre accreditato di un potenziale notevole (chi lo ha seguito nelle nazionali giovanile spagnole lo sa bene, chi lo ha soltanto visto con la maglia del Manchester United un po’meno), la sua prima metà di stagione aveva suscitato non poche perplessità. Ci si chiedeva come fosse possibile che un cristone di quella stazza manifestasse tanta indecisione negli interventi, accompagnata a numerosi errori nei disimpegni, talvolta rilevanti ai fini del risultato. La svolta l’ha segnata l’amichevole Spagna-Inghilterra: prima convocazione in nazionale, del tutto immeritata, brutta prestazione… ma da quel momento Piqué non ha più sbagliato un colpo, un crescendo inarrestabile, fino a raggiungere livelli di autorevolezza quasi imbarazzanti.
Centrale prestante, ha il principale neo nella lentezza e nella visibile macchinosità dei movimenti, difetti costituzionalmente inguaribili, però guadagna sempre più punti in tutto il resto. Migliora sempre di più il piazzamento e la marcatura nel corpo a corpo con l’avversario, che agli inizi tendeva a essere un po’blanda. Fortissimo sulle palle alte in entrambe le aree, a suo agio anche nell’impostazione: di tanto in tanto rischia qualche sbavatura nei passaggi corti, però ha un cambio di gioco notevole di 40 metri, e non ha paura di avventurarsi palla al piede quando la situazione lo richiede. Notevole personalità, destinato a un ruolo di leader sia nel Barça che in nazionale.
Sylvinho: Terzino sinistro, ottimo rincalzo nelle scorse stagioni, ormai vicinissimo alla condizione di ex-giocatore, una specie di Salgado culé chiamato però agli straordinari per questo finale di stagione, vista la doppietta di squalifiche di Abidal fra finale di Copa e finale di Champions. Con l’età ha perso forza propulsiva, gli rimane una proprietà di palleggio sopra la media del ruolo, che fa sempre comodo per iniziare l’azione. Grande coordinazione nel tiro in corsa e al cross, non offre garanzie dal punto di vista difensivo, tatticamente e soprattutto fisicamente.
Cáceres: Investimento estivo pesante, ma progetto più a medio-lungo termine, Guardiola lo ha utilizzato molto poco, fino a preferirgli addirittura un improvvisato Touré difensore centrale a Stamford Bridge. Centrale (ma può essere utilizzato anche da terzino, sia a destra che a sinistra) dalle grandissime potenzialità, ma ancora da sgrezzare. Per l’esplosività, l’agilità e l’istintività ricorda Sergio Ramos: grande stacco, velocità e mezzi atletici da privilegiato, ancora non utilizzati al meglio. Deve crescere tantissimo dal punto di vista tattico e della concentrazione, tende a perdere la posizione e a lasciarsi andare a interventi scomposti e ingenui. Nelle partite giocate finora in maglia blaugrana, ha mostrato un certo impaccio quando chiamato ad impostare dalle retrovie.
Abidal: Salterà l’ultimo atto sia della Copa che della Champions. Non proprio un idolo del Camp Nou, ben difficilmente si stacca da una dignitosa sufficienza. La sua utilità, comunque da non sottovalutare, è esclusivamente difensiva. Fisicamente è un prodigio, grande elasticità ed esplosività muscolare, velocissimo nei recuperi, attento nelle chiusure diagonali in aiuto ai centrali e puntuale nel pressing. In fase di possesso invece è un giocatore del tutto alieno a ciò che richiede la filosofia di gioco del Barça: ha polmoni e corsa per sovrapporsi mille volte a partita, ma non ha tocco e nemmeno istinto offensivo. Difficilmente l’azione progredisce quando passa dai suoi piedi, la rallenta, si limita a giocate semplici e quando va al cross è spesso impreciso. Utilizzabile anche come centrale, il suo ruolo di inizio carriera, anche se è subentrata un po’ di disabitudine.
Márquez: Assenza di fine stagione, pesantissima. Il miglior difensore della Liga e uno dei migliori al mondo nell’impostare, un centrocampista in più per la sicurezza con cui avanza palla al piede e la precisione dei cambi di gioco verso le fasce. Ma non è solo questo: il messicano è anzitutto uno straordinario leader difensivo, con una lettura delle situazioni che ha pochi rivali. Non ha un fisico particolarmente prestante nè grande velocità, ma si impone sempre senza affanni, perché anticipa le intenzioni, stronca sul nascere i pericoli. Tiene la linea difensiva altissima con enorme sicurezza, accorcia, chiude e risolve numerose situazioni potenzialmente scabrose alle spalle di Alves. La magnifica scelta di tempo (anche quando stacca nell’area avversaria) frutta interventi il più delle volte pulitissimi; buon battitore di punizioni quando gli altri tiratori gli lasciano spazio (un gran gol in Copa del Rey al Mallorca).
Gabriel Milito: Infortunato tutta la stagione, non si conosce il termine preciso della sua assenza e la cosa preoccupa. La sua prima stagione era stata molto convincente: centrale mancino di personalità, a meta strada fra Márquez e Puyol come caratteristiche, gran tempismo negli anticipi, rapido sul breve ma un po’in difficoltà contro attaccanti dall’allungo poderoso. Grande elevazione, tuttavia soffre quegli attaccanti fisici che mettono il corpo fra lui e il pallone (caratteristica che lo accomuna a Puyol).
CENTROCAMPISTI
Yaya Touré: Iniezione di centimetri e muscoli nel cuore del centrocampo. Importante per la fisicità, mai pienamente convincente come creatore di gioco davanti alla difesa. Non che gli manchi la tecnica o il tocco di palla come crede qualcuno, solo gli mancano i tempi, il senso del gioco e i movimenti del classico “4” blaugrana. Spesso troppo statico nella sua zolla di campo, raramente si libera del pallone in uno-due tocchi, e talvolta ricorre a percussioni palla al piede un po’forzate per uno del suo ruolo, per quanto in alcuni casi l’effetto-sorpresa sia dalla sua. Discreto lancio profondo, ma la stazza lo rende un pochino macchinoso nei primissimi istanti della giocata. Poderoso nei contrasti, non ha un gran senso della posizione, ma la sua falcata sulla lunga distanza è molto preziosa quando si tratta di realizzare coperture delicate nella metacampo difensiva (è lui il primo “correttore” di Alves). Tremenda bordata dalla lunga distanza, in realtà il suo ruolo sarebbe quello di incursore, mezzala a tutto campo con libertà di inserirsi (dove ha messo un bel gruzzolo di gol al Monaco), ma il passaggio al Barça ha richiesto una riconversione tattica.
Xavi: La bussola è sempre al suo posto, e ci mancherebbe. Guardiola gli ha accordato una fiducia se vogliamo ancora superiore a quella di Rijkaard, spremendolo come pochi altri nella rosa e creandogli il contesto ideale per esprimere il suo miglior calcio, che in questa stagione è arrivato copioso.
Parliamo di contesto perché Xavi è un giocatore fortemente dipendente da questo: il suo calcio richiede numerose opzioni di passaggio, compagni proiettati in avanti e pronti a smarcarsi, e un baricentro della squadra molto alto, che gli consenta di concentrarsi esclusivamente sulla creazione del gioco, risparmiandogli quei ripiegamenti nella propria metacampo per i quali non è proprio portato, dal punto di vista attitudinale e atletico. Condizioni che ha ritrovato tutte quest’anno, e che gli hanno consentito di trovare con frequenza pure la via del gol (6 nella Liga), muovendosi con tanta costanza a ridosso dell’area avversaria.
Xavi è “Made in La Masia”, è impensabile in una filosofia di gioco che non sia quella blaugrana, tutta basata sul possesso-palla. La magnifica gestione del pallone (impossibile toglierglielo quando fa scudo col corpo e si gira su sé stesso), la capacità di scegliere sempre l’opzione giusta e di padroneggiare i tempi del gioco, la precisione millimetrica dei passaggi lo convertono in uno dei migliori organizzatori di gioco del calcio mondiale.
Il suo limite è questo: può gestire ma non può cambiare bruscamente copione, sa scegliere la migliore opzione ma non sa crearne di nuove dal nulla. Dipende dalla squadra e non ha la capacità di un Iniesta di risolvere individualmente. Privo di cambio di ritmo, atleticamente “demodé”, è tutto piedi e cervello. Basta e avanza.
Keita: Primo ricambio per le mezzeali (ma Guardiola in alcune occasioni lo ha adattato davanti alla difesa, o da terzino sinistro in situazioni di totale emergenza come l’inferiorità numerica di Stamford Bridge), piena sufficienza, forse leggermente meno utilizzato di quanto ci si potesse aspettare l’estate scorsa. Mancino, discreta intelligenza tattica, enorme resistenza e dinamismo, si muove fra le due aree con grande facilità di corsa. Elegante e dalle geometrie semplici ma precise, è uno specialista delle incursioni, forte di un tiro secco e potente dalla lunga distanza e di un ottimo gioco aereo. Forse il gioco del Sevilla lo esaltava di più nel suo dinamismo a tutto campo, mentre nel Barça si trova necessariamente a giocare su velocità più basse e in spazi più ristretti, senza quello slancio ideale per le sue caratteristiche.
Busquets: L’altra novità della stagione con Piqué, su livelli superbi nella fase centrale della temporada, ora tira un po’il fiato e paga l’inesperienza, fisiologico alla prima stagione da professionista (che gli ha già fruttato l’esordio in nazionale). Promettentissimo “pivote” davanti alla difesa o mezzala (il ruolo dove ha prevalentemente giocato nel Barça Atlétic con Guardiola), spiccata intelligenza tattica, a momenti sembra guidato da un radar. In fase di possesso si completa con Xavi e Iniesta meglio di quanto non faccia Touré, si libera del pallone, si muove e lascia lo spazio al compagno perché possa ricevere fronte alla porta e dare continuità alla manovra. Utilizza sempre il minimo indispensabile di tocchi, è preciso, geometrico ma anche capace di difendere il pallone e liberarsi con giocate d’alta scuola nello stretto quando viene pressato (sebbene non sia rapidissimo col pallone tra i piedi, riesce a proteggerlo bene).
Difensivamente, è superiore a Touré come senso della posizione, ma molto inferiore sul piano atletico, certi recuperi dell’ivoriano sono fuori dalla sua portata. Preferisce rubare palla con l’intuizione piuttosto che giocarsela sul corpo a corpo. Molto prezioso nel pressing quando gioca sulla linea delle mezzeali. Le sue capacità di lettura del gioco, il saper scegliere il tempo e lo spazio giusti, fanno pensare che da mezzala potrebbe pure segnare un buon numero di gol, anche se al momento non è molto portato all’inserimento offensivo.
Gudjohnsen: Dopo tre stagioni lo si può dire: bocciato. Guardiola gli ha dato una fiducia insospettabile la scorsa estate, coinvolgendolo nel turnover del centrocampo (in misura persino eccessiva se lo rapportiamo col trattamento riservato a Hleb), ma il saldo è sicuramente negativo. Troppo lineare da centrocampista per quello che è il gioco del Barça, si limita a generosità, corsa e qualche buon inserimento nell’area avversaria (è forse soprattutto quest’ultimo aspetto che ha spinto Guardiola a tenerlo in considerazione), ma giocare da centrocampista in questa squadra implica una complessità superiore, la capacità di alternare più ritmi oltre che un trattamento del pallone estremamente raffinato. Il ruolo ideale dell’islandese sarebbe quello di seconda punta (portata alla manovra e dal repertorio relativamente completo), non previsto nel modulo blaugrana.
Iniesta: Un infortunio muscolare lo ferma sul più bello, privandolo della finale di Copa del Rey e mettendolo in serio dubbio per quella di Champions, proprio quando si stava affermando come il giocatore più brillante e determinante del Barça in questo finale di stagione.
Giocatore enciclopedico, coniuga disciplina e fantasia, umiltà e ambizione, la continuità di rendimento all’estro capace di decidere le partite. Utilizzabile indifferentemente da mezzala (ma con Rijkaard anche davanti alla difesa in poche occasioni), da trequartista o da attaccante esterno nel tridente (decisamente più comodo partendo da destra che da sinistra), rappresenta l’evoluzione più offensiva del prototipo del regista di scuola Barça. Non ha mandato in pensione Xavi come previsto a suo tempo da Guardiola perché è diventato qualcosa di diverso e più grande, un giocatore non solo geometrico e dotato di visione di gioco, ma capace anche di scardinare le difese avversarie con iniziative palla al piede, di imprimere l’accelerazione decisiva sulla trequarti. È il primo controllo, forse nemmeno inferiore a quello di Messi per nitidezza, a fare la differenza nel suo calcio: quello gli regala un vantaggio decisivo sugli avversari, e l’opportunità di sbucare anche negli spazi più angusti. Micidiale quando buca la seconda linea avversaria in percussione, un tormento per i terzini quando parte largo, perché in corsa muove costantemente il pallone tenendolo incollato e non sai mai da che lato cercherà di dribblare. Ha uno spunto esplosivo nei primi metri, ed è più forte e resistente di quanto possa sembrare a prima vista. Grande visione di gioco, grandi intuizioni in rifinitura, ma eccessivo altruismo quando si tratta di finalizzare. Non irresistibile nemmeno il tiro e il calcio a lunga gittata: il golazo di Stamford Bridge in questo senso rappresenta una felicissima eccezione.
Víctor Sánchez: Canterano sperimentato nelle tre competizioni, un tuttofare, indifferentemente mezzala, difensore centrale e terzino destro. Per quel poco visto, non ha convinto: dinamismo sì, duttilità e intelligenza tattica anche, ma piedi e visione di gioco insufficienti.
ATTACCANTI
Messi: Il finale di stagione poco brillante, un po’col fiatone, non può far passare in secondo piano il ruolo DOMINANTE rivestito. Senza infortuni di mezzo, uno show continuo che ne ha segnato la maturazione definitiva, se non il miglior giocatore del mondo siamo lì. Sottolineo “giocatore”: è in questa stagione infatti che Messi ha completato la trasformazione da solista già devastante (nessuno ha il suo dribbling, proprio nessuno, è capace di far fuori da solo un’intera difesa schierata, è questo sostanzialmente l’aspetto che ha giustificato il paragone con Maradona) in uomo-squadra completo, capace non solo di fare la voce grossa in zona-gol (23 gol in Liga, 8 in Champions, momentaneo capocannoniere, 5 in Copa del Rey), ma anche di capire che delle volte un movimento intelligente o un semplice tocco nel momento e nella zona di campo giusta può essere più efficace di una sfilza interminabile di dribbling. Guardiola gli ha ritagliato un ruolo di maggior responsabilità sulla trequarti: non è più soltanto un attaccante che parte dalla destra e si gioca l’uno contro uno, ma cerca una posizione fra le linee a partire dalla quale combinare coi centrocampisti e rifinire per gli altri attaccanti. Può tuttavia ancora migliorare nella finalizzazione: il tocco di palla non è maradoniano ma è comunque di prim’ordine, e un giocatore della sua classe dovrebbe optare molto di più per la conclusione di precisione invece che per la pura potenza, come ancora troppo spesso Messi fa.
Eto’o: Non era previsto in questo Barça 2008-2009, Guardiola lo voleva tagliare, ma i compagni hanno spinto forte per la sua permanenza e il tecnico ha ripiegato sul buonsenso, conscio del fatto che sul mercato è molto difficile trovare pari garanzie realizzative. Sono arrivate caterve di gol, 28 nella Liga finora, accompagnate però a una strana sensazione: per la prima volta da quando è al Barça, Eto’o davvero non pare più così imprescindibile. Aumentano i gol ma paradossalmente diminusice nettamente l’incidenza sul gioco rispetto agli altri anni: sempre più estraneo alla manovra (spesso a partita in corso gli viene preferito un falso centravanti come Messi per ottenere un maggior dialogo col centrocampo), in questa stagione il suo contributo, pure importantissimo, si è limitato alla sola apparizione in zona-gol. Resta comunque un animale offensivo di rara pericolosità: l’ipervelocità lo rende letale per ogni difesa che provi ad alzarsi appena, la verticalità e profondità che imprime negli ultimi metri sono devastanti. Non un finissimo palleggiatore ma tecnicamente a posto, il suo è un calcio di contagiosa istintività: mezzo metro e si inventa una conclusione di prima intenzione che ti incenerisce, agilità da coguaro e rapidità da cobra. Al di là del dato tecnico, il suo vero valore aggiunto è sempre stato l’ambizione: un giocatore incredibilmente competitivo, talvolta sgradevole in certi suoi eccessi, ma che prende sempre di petto le situazioni. Grande spirito di sacrificio, primo difensore per il pressing incessante che porta sull’inizio dell’azione avversaria.
Bojan: In via di maturazione, non va caricato di responsabilità ma gli va tenuto sempre aperto uno spiraglio per un posto da titolare in futuro, come è stato per Iniesta qualche anno addietro. Stagione non facile, dopo la prima da professionista in cui tutto è rose e fiori, la seconda per i giovanissimi prevede quasi sempre una flessione. A disagio per lo scarsissimo utilizzo e abbastanza impacciato nei primi mesi (eccetto la tripletta di Basilea in Champions), ha avuto invece un ruolo di rilievo in Copa del Rey, sempre titolare e con 4 gol. Per questo dovrebbe essere premiato col posto da titolare nella finale con l’Athletic, oltre che per le assenze di Henry e Iniesta.
Bojan ha talento e intuito negli ultimi metri, ma è ancora un po’troppo acerbo per pesare sulle partite come si deve. Ha migliorato negli ultimi mesi la partecipazione alla manovra, è mobile e intelligente nel cercarsi lo spazio e nello scegliere il tempo per scattare sul filo del fuorigioco, ma perde quasi sempre il contrasto col difensore avversario e viene recuperato con relativa facilità sulla lunga distanza. Buono tecnicamente, rapido nell’esecuzione, deve guadagnare potenza anche al tiro. Opportunista, mediocre gioco aereo. Adattato spesso alla posizione di attaccante esterno, non è un ruolo che gli si confà (gli manca il dribbling secco da fermo).
Hleb: La scommessa persa. Investimento pesante, vanificato da una gestione poco comprensibile da parte di Guardiola. Lo conoscevamo all’Arsenal come un centrocampista offensivo che ama restare sempre nel vivo del gioco, ma la scelta di Guardiola di emarginarlo all’ala, ora come rincalzo di Messi a destra ora come terza scelta a sinistra, lo ha fortemente penalizzato, fino a farlo diventare in pratica un uomo in meno nella rosa. Davvero non si capisce com’è che Guardiola non lo abbia MAI provato dal primo minuto nel ruolo di mezzala (di Hleb in posizione centrale, si ricorda soltanto una buona prestazione da falso centravanti nel 4-0 casalingo al Valencia), sarebbe stata una carta in più nel turnover, un’alternativa di livello per dipendere meno da Iniesta.
Da parte sua il bielorusso ci ha messo un certo conformismo, confermando un carattere non proprio di ferro, lasciandosi trascinare da questa situazione e offrendo prestazioni il più delle volte mediocri. Non ha trovato una sintonia con gli altri palleggiatori blaugrana, gioca sempre a mille all’ora, a testa bassa, quando invece il gioco del Barça esige più “pausa”. Spesso fa la scelta sbagliata, va in azione personale quando non deve o cerca il passaggio quando invece occorre affondare, sintomo di confusione e mancanza di serenità. Peccato perché le caratteristiche del giocatore sono più che mai “da Barça”(rafforzate anche dall’esperienza all’Arsenal, dove si gioca un calcio simile): grande velocità, resistenza e generosità, Hleb si esalta nel dialogo palla a terra, svariando su tutta la trequarti. Capace di percussioni palla al piede molto insidiose, pecca quasi sempre al momento della conclusione, o per eccesso di altruismo oppure per la debolezza del tiro (è destro, ma calcia male anche con l’altro piede).
Henry: Assente nella finale di Copa del Rey, incerto per quella di Champions. Ricostruito nel morale da Guardiola dopo la prima grigia stagione in maglia blaugrana, ha finito col diventare un giocatore importantissimo nella sua nuova dimensione di gregario di lusso. Diciannove gol in campionato, cinque in Champions, ma ciò che più conta, la capacità di adattarsi alle esigenze della squadra. Ciò che è richiesto all’Henry del Barça si differenzia nettamente rispetto a ciò che era richiesto all’Henry dell’Arsenal: lì era la punta più avanzata, con libertà di svariare, spesso si allargava a sinistra per cercarsi l’uno contro uno e le occasioni migliori; al Barça gioca sempre a sinistra, ma ha l’obbligo di fare la fascia, arriva in area di rigore con molti più metri nelle gambe, e ha consegne tattiche molto più rigide. È lui a dover restare sempre largo per aprire la difesa avversaria: questo gli toglie chances per brillare un po’di più in zona-gol, ma beneficia l’azione offensiva nel suo complesso. È inoltre sempre lui a dover ripiegare come un tornante quando la fase di non possesso lo richiede, compito che sbriga con ammirevole dedizione.
Ha perso i picchi di velocità incontenibile dei tempi migliori, ma resta un giocatore molto pericoloso quando ha l’opportunità di puntare l’avversario in dribbling. Dal vertice sinistro dell’area di rigore, la sua azione classica prevede due alternative: o fintare il tiro e andare via sul sinistro per cercare il fondo, oppure l’amatissima conclusione a girare verso il secondo palo con l’interno del destro. Poderoso allungo, grande eleganza nella corsa e nel gesto tecnico, qualche défaillance di troppo invece davanti al portiere: i gol sono tanti, ma anche le occasioni sbagliate non scherzano, un po’perché arriva a corto di lucidità in zona-gol, un po’perché al contrario di Messi abusa della conclusione morbida a scapito della concretezza.
Pedro: Conosciuto fino alla scorsa stagione come “Pedrito”, il 21enne canario ha trovato spazio da titolare nel preliminare di Champions, nella partita di ritorno della fase a gironi con lo Shakhtar e in due gare di Liga contro Racing e Valladolid. Guardiola se l’è tenuto come ultima opzione offensiva perché unica ala di ruolo in tutta la rosa. Senza sbalordire, Pedro fa il suo: parte largo, detta il passaggio in profondità, si smarca senza palla e ha un buon uno contro uno. Leggero e molto rapido nel gioco di gambe sul breve, ha il vantaggio di essere praticamente ambidestro, quindi ha sempre due lati sui quali poter rientrare. Nel giro dell’Under 21.
Etichette: Barcelona, Copa del Rey
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