domenica, novembre 03, 2013

Collaborazione con "L'Ultimo Uomo"

Da quest'estate ho cominciato una collaborazione con "l'Ultimo Uomo", una rivista web di sport e cultura pop. Qui trovate i link a tutti i miei articoli.

16 LUGLIO 2013 "Il tramonto del calcio spagnolo?" http://www.ultimouomo.com/tramonto-calcio-spagnolo/

20 SETTEMBRE 2013 "L'ingegnere" http://www.ultimouomo.com/lingegnere/

18 OTTOBRE 2013 "Il caro, vecchio, nuovo Guardiola" http://www.ultimouomo.com/il-caro-vecchio-nuovo-guardiola/


sabato, novembre 02, 2013

Il Granada dei giocatori fichissimi.


In principio era Guilherme Siqueira, un terzino sinistro brasiliano tecnicissimo che quasi aumentava la precisione delle sue giocate al crescere della velocità, spettacolari uno-due e sovrapposizioni interne; poi c’era Aranda, l’attaccante autosufficiente, uno che prometteva nella cantera del Real Madrid ma non ha mai sfondato, ma che comunque nella partita secca, era capace di portare a crisi di nervi i migliori difensori della Liga, con la sua capacità di gestire qualunque pallone, anche il più ingiocabile, e trasformarlo in qualcosa di utile, un po’ col mestiere, un po’ col fisico, un po’ con giocate inventate dal nulla. Ora Aranda non c’è più, e Siqueira è volato al Benfica, ma il Granada rimane una squadra di “freaks”.

Sì, come quel film stupendo di Tod Browning, ma spogliato di ogni connotazione horror: scherzi di una natura calcistica nella quale già nessun giocatore è completamente uguale a un altro, ma alcuni sono proprio bestie strane, per alcune caratteristiche particolari, originali, non necessariamente le più indicate per vincere i trofei ma sì per stimolare gli appassionati, specie per il piacere di cantarne le lodi in circoli il più possibile clandestini, lontani dai titoloni. Un po’ quello stesso piacere che si prova a condividere un video di Le Tissier o Mágico González e sostenere che Pelé, Maradona e Cruijff scherzavano e che loro in realtà sono stati i più grandi giocatori di tutti i tempi.

Il bello è che il Granada dei giocatori fichissimi come squadra è in realtà una delle più grigie. Lucas Álcaraz, allenatore ancora con lo stampo degli anni ’90, serio ma un po’ datato con quel suo 4-4-2 simmetrico, lineare, senza scambi di posizione sulla trequarti, con pochi effettivi in area avversaria e senza particolari situazioni offensive studiate (nelle ultime partite comunque si è passati a un 4-5-1 con più controllo nei tre centrocampisti centrali). Una squadra che fa una fatica tremenda a creare occasioni e segnare (solo 7 reti finora), che non tratta male il pallone ma che comunque punta più a addormentare i ritmi, far sì che non succeda nulla e poi monetizzare l’episodio.

Eppure, in tutto questo piattume, una sua partita va sempre tenuta d’occhio perché può comunque riservare alcuni fra i momenti più divertenti della Liga attuale. La colpa è di Yacine Brahimi: non azzardiamo se definiamo il 23enne algerino il secondo miglior dribblatore della Liga dopo Messi (concorrono anche Neymar e un Marko Marin purtroppo ancora incapace di ritrovarsi). Naturalmente ciò non coincide con l’essere fra i migliori giocatori in assoluto del campionato, anzi la sensazione è che Brahimi sia uno di quelli che nello stesso istante in cui raccogli la tua mascella dopo una giocata inverosimile ti fa pensare anche che non diventerà mai un grande giocatore.
E in fondo è proprio questo il bello, perché se lo diventasse andrebbe a una grande squadra, diventerebbe ”commerciale”, verrebbe prontamente banalizzato col  metro di giudizio dei risultati, e tu magari discutendo con gli amici ti troveresti costretto a difenderne la competitività, e pur sapendo che non è così non ti va di ammetterlo, perché lo sentiresti come un tradimento verso la tua passione insana.


La “stranezza” di Brahimi è la capacità di dribblare su entrambi i lati partendo da entrambe le fasce, perché sui primi metri è un proiettile, e in più l’agilità e il controllo di palla gli permettono indifferentemente di lanciarsi verso il fondo o sgusciare all’interno fra nugoli di avversari.  La capacità di calamitare il pallone fa quasi sembrare che più avversari lo circondano più sia difficile togliergli palla. Quando poi fa scudo col corpo, torna indietro per proteggere la palla e magari ripiegare su un passaggio semplice, ma all’improvviso arresta la sua marcia e riparte come un razzo sul lato opposto, beh, siamo proprio ai cartoni animati.
Il problema però è che nessuno in più di un anno ha ancora capito quale sia il suo ruolo, e probabilmente resterà un mistero che lo accompagnerà fino a fine carriera. Sembra più un solista senza una collocazione precisa: l’anno scorso a lungo impiegato al centro della trequarti nel 4-2-3-1 di Anquela, spunti buoni ma poche capacità da rifinitore, poi col cambio in panchina si è trovato sulla destra, senza per questo essere un esterno.  Ora invece a sinistra, dove la propensione a rientrare sul destro fa un po’ a pugni coi movimenti di un altro destro, il promettente terzino sinistro francese Foulquier. Resta comunque l’unica scintilla nel gioco di Lucas Álcaraz.

Dopo il dribblomane patologico passiamo a un altro caso di devianza….Avete presente Quegli attaccanti che giocano giocano giocano, fanno in ogni istante la cosa migliore per la squadra, meno la più importante, e cioè il gol? Figure romantiche come il primo Higuaín, o Jonas del Valencia prima che si abbandonasse al vizio del gol?
Ebbene, il Granada vanta anche il primato del romanticismo, nel suo centravanti Ighalo (e la coppia con Aranda la scorsa stagione era sentimentale come nessuna). Se il calcio si giocasse senza porte, questo sarebbe un fuoriclasse. La porta non la vede nemmeno col binocolo (il gol dell’altro giorno all’Atlético, comunque un male minore perché gol ininfluente, non diminuisce la nostra stima), però i tifosi continuano a idolatrarlo per il gol all’Elche nello spareggio-promozione di due anni fa.
La cosa che colpisce di Ighalo è sostanzialmente una sola: il gioco spalle alla porta. Qualsiasi pallone rasoterra, o a mezz’altezza (come torre sulle palle alte se la cava ma resta nella norma), esige molta pazienza in chi lo marca, perché il nigeriano ti si pianta davanti, mette le radici sulla zolla designata e non lo smuovi. Devi avere pazienza e sperare in qualche dissuasione indiretta, aspettare un raddoppio o non lasciarlo girare (anzi  no, meglio lasciarlo girare perché questo scherzo della natura gioca più scomodo fronte alla porta), perché il primo controllo sarà suo nel 99% dei casi. Un po’ la kryptonite per i difensori troppo convinti dei propri mezzi e tendenti all’anticipo sconsiderato, tipo Koscielny o David Luiz (invece un centrale composto come Miranda dell’Atlético lo ha alla lunga domato).
Otto-nove righe dedicate solo al gioco spalle alla porta di Ighalo sono totalmente inutili, cazzeggio puro, ancor di più dopo mesi di assenza dal blog in cui la prima cosa da fare sarebbe parlare della polemica fra Blatter e Cristiano Ronaldo, ma questa cosa l’ho tenuta dentro per mesi ed era diventata ormai un’esigenza insopprimibile, scusate.


Il terzo “freak” è un giocatore bravo sul serio, e fin qui (ha già 29 anni, e un paio di anni fa ancora mangiava la polvere della Segunda) forse sottovalutato: Manuel Iturra. Ora, se c’è uno stereotipo del calcio che mi ha sempre infastidito è quello del “ruba palloni”, del giocatore che di per sé darebbe equilibrio a una squadra fornendo individualmente qualcosa che invece deriva sempre e soltanto da equilibri collettivi (conseguenza deleteria di questa credenza sono le squadre costruite col bilancino: un ruba palloni per uno coi piedi buoni, e così via…). Se c’è però un giocatore che più di tutti fornisce quest’illusione è il cileno ex Málaga, giocatore incredibilmente reattivo e dinamico, che ha pure deciso unapartita l’anno scorso con un pallone rubato(vittima uno svampito ThiagoAlcantara).
Il guaio di Iturra è che è pure tatticamente avveduto, per cui nel ruolo in cui sta giocando attualmente, vertice basso del centrocampo dietro le mezzeali Recio e Fran Rico, ne apprezzi le capacità di copertura, ma al tempo stesso ne rimpiangi il mancato utilizzo proprio sulla linea delle mezzeali, dove la sua capacità nel pressing sposterebbe di non pochi metri in avanti il baricentro della squadra, sempre che il conservatore Álcaraz lo volesse. Insomma, di Iturra ce ne vorrebbero pure due.
Le capacità di mastino poi ne nascondono anche l’apporto in fase di possesso: più che col tocco, aumenta la fluidità della manovra col suo movimento, la capacità di offrire costantemente una linea di passaggio più avanzata rispetto a chi porta palla: capacità che si notava anche al Málaga soprattutto confrontata con l’alternativa Camacho, che ancorava la squadra a un “doble pivote” molto più rigido quando sostituiva Iturra al fianco di Toulalan.


E non è finita, il Granada dei “freaks” è anche la squadra di Diego Buonanotte, il giocatore più basso del campionato che visto in tv a volte sembra più piccolo del pallone, la cui qualità nello smarcarsi tra le linee e il cui sinistro sono abbastanza sacrificati dall’atteggiamento di Alcáraz (che infatti ora lo sta lasciando in panchina, preferendo un esterno classico come Pereira sulla destra invece di lasciare a briglia sciolta lui che parte da destra e Brahimi che parte da sinistra). E infine c’è anche il 21enne difensore centrale Jeison Murillo, un prospetto sempre più serio, grande fisico, concentrazione e personalità. Ma per sua sfortuna è colombiano, quindi alla moda, quindi pronto a finire sulla bocca di tutti e per questo destinato presto a non piacerci più.

mercoledì, febbraio 06, 2013

Pro e contro del Barça di Iniesta.



C’è stato un momento, intorno alla prima metà di gennaio, in cui il Barça sembrava aver trovato la pietra filosofale: non solo infallibile nei risultati, ma anche incontenibile per qualsiasi strategia difensiva. Le difficoltà emerse la scorsa stagione contro quelle difese “finte-passive”, schierate bassissime, senza pressare per non perdere le posizioni e tutte ammucchiate al centro (lasciando le fasce perché tanto il Barça non aveva i giocatori per raggiungere il fondo)  sono state in qualche modo aggirate facendo affidamento sul nuovo meccanismo con cui il Barça scardina le difese: il trio composto da Iniesta, falsa ala sinistra, Cesc Fàbregas, mezzala sinistra ormai completamente trasformatasi da regista in incursore di lusso, e Jordi Alba, il terzino-proiettile. Uno completa l’altro e insieme garantiscono una enorme varietà di soluzioni.

Iniesta è il giocatore strategico perché dalla sinistra è diventato il vero regista della squadra: non punta l’avversario (anche se continua a concedersi e a concederci qualche succulenta croqueta, il classico dribbling, ispirato dall’idolo d’infanzia Michael Laudrup, eseguito passandosi la palla rapidamente dal destro al sinistro, con effetti paranormali in prossimità della linea di fondo), ma gestisce il possesso, “addensa” la propria squadra nella zona della palla e ne facilita così anche il successivo recupero, dando il tempo a tutti i compagni e in particolare sguinzagliando Jordi Alba. Se Iniesta è strategico, l’ex Valencia è decisivo per far correre all’indietro e schiacciare gli avversari; in tutto questo, Cesc compensa i movimenti dei compagni con grande intelligenza, allargandosi nelle frequenti occasioni in cui Iniesta viene in mezzo, offrendo uno sfogo in profondità con i suoi continui scatti, movimenti imprescindibili (come quelli di Pedro) in un Barça che aggiungendo nel tridente Iniesta a Messi aumenta ancora il numero di giocatori che tendono a venire incontro al pallone.

Le ultime partite, in particolare gli ultimi due big-match contro Real Madrid (Copa del Rey) e Valencia (Liga) hanno evidenziato qualche scricchiolio. Il dato significativo è che il Valencia ha ripetuto quasi esattamente, e con identico successo, la strategia del Real Madrid, il che sembra avvalorare la tesi che una ricetta “anti-Barça”, spendibile dagli avversari nelle competizioni in cui i blaugrana ne hanno ancora, esista.
Se il Barça non è più tanto difendibile col blocco bassissimo, al contrario pare che lo si possa limitare pressandolo molto alto, impedendo alle mezzeali di girarsi una volta ricevuto il pallone dalla difesa. Intendiamoci, questa non è la formula magica, perché rimane comunque una strategia molto impegnativa (più per il dispendio mentale che atletico: il pressing alto se fatto bene risparmia metri ai giocatori, però al primo errore di concentrazione l’avversario ti buca la difesa alta e va in porta…e 90 minuti sono troppo lunghi per non concedere qualcosa), però è quella che si adatta meglio agli attuali limiti del centrocampo blaugrana, posto che parlare di limiti per un centrocampo del genere resta uno schiaffo alla miseria.

Il Barcelona perfettissimo è il 2010-2011, e quel Barça oltre a Messi esaltava il ruolo del cosiddetto interior de posesión, cioè la mezzala che fra le due prevista dal 4-3-3 tende di più ad abbassarsi per ricevere palla dalla difesa e dare i tempi alla squadra. Ora, Xavi è storicamente il paradigma dell’interior de posesión: nel citato Barça 2010-2011 non era comune la sua capacità di congelare il pallone di fronte a qualsiasi tipo di pressione e far avanzare ordinatamente pallone e posizioni dei compagni di squadra nella metacampo avversaria. L’inconveniente è che ora Xavi soffre sempre di più questo trattamento da parte degli avversari, e se continua a incidere sulle partite non lo fa più all’inizio della manovra, ma solo una volta che altri hanno permesso al Barça di superare questa pressione e installarsi sulla trequarti, dove la visione di gioco di Xavi può ancora dire la sua nell’ultimo-penultimo passaggio.

Il problema del Barça è che questi “altri” nel Barça delle ultime due gare si riducono a un solo giocatore: Andrés Iniesta. Sempre più circondato da un’aura di “zidanità”, forse anche per l’incipiente calvizie, che lo porta a dominare le partite passeggiando:  lui mette ordine, lui chiarifica, lui equilibra. Solo lui. Di Xavi abbiamo già detto, Cesc a inizio azione è ormai irrilevante, mentre Thiago Alcantara, l’erede designato, ad oggi non rappresenta ancora un’alternativa completamente affidabile: detto che una coppia di mezzeali composta da lui e Xavi ha finora dimostrato una scarsa compatibilità (entrambi tendono ad abbassarsi per iniziare l’azione, e questo facilita il pressing degli avversari che non devono difendere su più linee), il gol regalato proprio da Thiago al Málaga nell’andata di Copa del Rey (con l’aiuto di uno scellerato passaggio del secondo portiere Pinto, palla persa al limite della propria area sul pressing dell’ipercinetico Iturra) simbolizza l’attuale impreparazione dell’ispano-brasiliano.

Anche Messi non sembra l’uomo più adatto a rispondere questa carenza. Restiamo sbalorditi dall’evoluzione del giocatore, che da solista sulla fascia destra ha via via cominciato a influire su una fetta sempre più estesa del campo, ma lui, senza tirare in ballo alcun tipo di limite, resta un altro tipo di giocatore. Uno che accelera e crea più che organizzare.
Contro un pressing alto quando gli capita di prendere palla è più che facile che, anche da posizioni molto arretrate, mandi i propri compagni direttamente in porta (incredibile un passaggio filtrante per Fàbregas domenica) piuttosto che farli accomodare nella trequarti avversaria. Quindi diventa una partita di transizioni in cui il Barça sì continua a disporre di maggiori probabilità di vittoria, ma che presenta anche qualche inconveniente se è vero che allungandosi le squadre viene allo scoperto un tremendo difetto di Sergi Busquets, ovvero la mancanza di ubiquità. Quando il Barça non ha la possibilità di difendere stabilmente vicino all’area avversaria, Busquets fallisce nel compito di moltiplicarsi per tappare i buchi lasciati da Fàbregas e soprattutto Xavi e Iniesta, pressoché inesistenti quando si tratta di difendere nella propria metacampo.

La risposta a questo problema è stata nelle ultime due partite il cambio di posizione fra Cesc e Iniesta, con Andrés stabilmente in mezzo per controllare meglio il gioco. Il problema però è che ove le cose restassero in questi termini anche nei prossimi mesi, diventerebbe un rischio eccessivo per un Barça che volesse continuare a giocare il suo calcio dipendere da un solo giocatore. Un Iniesta che peraltro per caratteristiche non ha mai avuto la stessa presenza costante nel gioco di Xavi.
Ma il problema può essere anche di percezione nostra: il Barça 2010-2011 ci ha abituati male, perché nel calcio la cosa normale è che una squadra di fronte a un pressing il pallone tenda a perderlo. Il juego de posición di quel Barça nella sua natura a prima vista paradossale (avanzo con tutta la squadra per difendere meglio) è un equilibrio delicatissimo, raggiungibile solo da dosi massicce di talento che un’attenta programmazione, una congiunzione astrale o una più prosaica botta di culo ha voluto che si concentrasse nel giro di pochi anni tutto al Camp Nou.

sabato, settembre 22, 2012

Pirati di Vallecas.


Da una squadra i cui ultras si chiamano “Bukaneros” e il  cui goliardico inno non ufficiale recita “la vida pirata la vida mejor” era difficile aspettarsi qualcosa di diverso dalla spregiudicatezza. Se però la Liga pensava di aver vissuto la sua esperienza più estrema con i 6-7  giocatori costantemente davanti alla linea della  palla di Bielsa, quanto proposto finora dal Rayo Vallecano va persino oltre. Paco Jémez viene da un’ottima Segunda (fermatasi solo ai playoff promozione) con un Córdoba che impressionava per il suo calcio avvolgente e sempre d’iniziativa, ma che non recava nessuna traccia di sconsideratezza.
Invece a Vallecas, dopo una prima giornata con una “normale” difesa a quattro, dalla seconda sul campo del Betis ecco una sorta di 3-3-4 liberamente ispirato ai kamikaze giapponesi della Seconda Guerra Mondiale: il Betis rimane sorpreso, soprattutto nel primo tempo, dalla novità della schiacciante superiorità numerica fra centrocampo e attacco del Rayo, ma al tempo stesso si intravedono i lati scoperti dello schieramento ospite.
Lati scoperti che diventano voragini nella partita casalinga col Sevilla, dove si raggiunge il picco dello sprezzo del pericolo: tre contro tre nella metacampo difensiva regalato al tridente andaluso Jesús Navas-Negredo-Manu, giocatori che quanto a capacità in campo aperto possono persino rivaleggiare con gente come Pepe e  Sergio Ramos. Il bello è che la partita finisce 0-0 quando già dopo il primo tempo il Sevilla  (che si prende il lusso di sbagliare due rigori) potrebbe averne fatti quattro.
Poi c’è il derby al Vicente Calderón, e nemmeno in questo caso il livello dell’avversario intimidisce Jémez al punto da fargli cambiare assetto: il dettaglio psichedelico della serata è il pressing di 6 (!) giocatori, fra attaccanti e centrocampisti, quasi fino al limite dell’area dell’Atlético. Poi i colchoneros mangiano la foglia, e saltano questo pressing lanciando subito sull’attacco: Turan, Falcao e Diego Costa approfittano della parità numerica e finisce come finisce. Ora arriva l’altro derby col Real Madrid: diventa difficile pensare a un Rayo che riproponga la stessa formula, ma ormai siamo abituati a stupirci: stavolta chiederanno all’arbitro di giocare con i portieri volanti, o cos’altro?


Lo stupore naturalmente non nasce dal modulo in sé (i numeri messi così non significano nulla), ma dalle caratteristiche dei giocatori.
Anzitutto il Rayo gioca con la più pura delle difese a tre: accanto al nuovo acquisto Jordi Amat, Tito e Casado son due terzini di ruolo e come tali si muovono. Lo stupore si accresce passando al centrocampo, e in particolare alla coppia di mezzeali. Non tanto Adrián González (onestissimo palleggiatore che in passato, soprattutto a Getafe, ha pagato la “colpa” di essere figlio di Míchel), quanto piuttosto Trashorras.
A questo proposito viene da fare un parallelo con l’altra squadra che di recente ha provato un 3-3-4 nella Liga, e cioè l’ultimo Barça di Guardiola: se il Barça con questo modulo già soffriva qualcosa in transizione difensiva, pure aveva come  perno della manovra un giocatore come Xavi, che proprio sulla capacità di assicurare il possesso del  pallone e il buon posizionamento della propria squadra ha costruito le proprie fortune; Trashorras in cambio rappresenta il tipo opposto: una mezzapunta piuttosto discontinua e anarchica, portata a cercare il passaggio risolutivo più che la continuità di manovra e l’equilibrio. Con lui aumenta la probabilità della giocata geniale, ma anche quella di perdere “male” la palla, con la propria squadra esposta al contropiede. Forse qui si sente anche la mancanza del veterano Movilla (svincolato e passato al Zaragoza), l’uomo d’ordine in mezzo al campo sia nella stagione precedente che in quella della promozione.

Ma questo è nulla…il vero estremo il Rayo lo raggiunge sulle fasce. Ora, con la difesa a tre uno si aspetterebbe esterni sì molto offensivi ma pur sempre esterni, che possano cioè sia offrire il riferimento per aprire il gioco sia la possibilità di ripiegare in aiuto alla difesa. Qui però Paco Jémez non solo utilizza vere e proprie mezzepunte se non attaccanti, ma li utilizza anche sulla fascia inversa rispetto al piede preferito.
Per esempio, Piti: uno inquadrabile come seconda punta, al massimo a destra in un 4-2-3-1 per poter rientrare e liberare il suo buon sinistro (a dire il vero l’unica qualità degna di nota). Qui continua a eseguire lo stesso movimento, ma dietro ha una difesa a tre, e fa tutta la differenza di questo mondo: se accentra troppo la propria posizione il Rayo o rimane senza riferimento esterno o deve addirittura chiamare all’avanzata il terzino! E questo sembra un movimento voluto da Jémez: gli attaccanti esterni ricevono ma poi tagliano subito verso la trequarti, e a quel punto o incrociano verso la fascia altri attaccanti  o il gioco diventa asfittico, e quando il Rayo perde la palla sulle fasce si spalancano incredibili praterie per gli avversari. Inutile dire che in queste condizioni, non solo per la scarsa propensione individuale degli interpreti, è pura utopia vedere gli attaccanti esterni scalare in aiuto ai terzini per chiudere sui cross avversari dalla fascia opposta.

Chi si prende tutte le rogne in copertura è perciò Javi Fuego, centrocampista difensivo in evidenza lo scorso anno (fra i primi recuperatori di palloni nell’ultima Liga, se non ricordo male), ma in questo caso chiamato a un’impossibile ubiquità: deve essere al tempo stesso l’uomo in più a centrocampo e quello in difesa, retrocedendo accanto a Amat in determinate occasioni.
Il movimento di Piti vale anche per José Carlos quando questi si sposta a destra: l’ex promessa della cantera del Sevilla, mancino tecnicamente molto raffinato (ma forse più divertente che utile) è sempre stato tendenzialmente un trequartista, che dalla fascia più che altro parte per accentrarsi. Il giocatore che potrebbe limitare questo disordine è Lass Bangoura: il guineano, rivelazione dello scorso campionato, finora non è stato titolare fisso, ma giocando a destra potrebbe garantire un riferimento esterno più costante e maggiore profondità, senza bisogno di tutti gli incroci fra trequarti e fasce che se da un lato possono aumentare l’incertezza nelle marcature avversarie, dall’altro rischiano di scoprire di più la squadra a palla persa. Ma anche Lass finora non ha giocato solo a destra: pure lui, destro naturale, a tratti ha coperto la fascia sinistra, con una simile (anche se meno accentuata rispetto a Piti e José Carlos) tendenza ad accentrarsi. Evidentemente è una cosa cercata.

I due attaccanti centrali son chiamati a fare tantissimo movimento, perché devono sia alternare i movimenti fra di loro (uno viene incontro per l’appoggio, l’altro detta la profondità) che compensare gli incroci degli esterni allargandosi verso la fascia.
Il danese Nicki Bille finora ha offerto più buona volontà che altro: generosissimo su tutto il fronte,  ma poca qualità per combinare nello stretto, scarsa capacità di tenere palla per fare salire i compagni e zero mordente in area di rigore. Questa è solo una prima impressione, ma la mancanza dei gol di Michu potrebbe pesare tanto.
Il suo compagno invece, il 20enne brasiliano Leo Carrillo Baptistao, è una delle più belle sorprese di quest’inizio di Liga: proveniente dal Rayo B, già in gol (ancora diciannovenne) al suo esordio col Betis, sta impressionando per la personalità e la naturalezza del suo gioco. Testa alta, eccellente controllo in corsa, potenza e agilità nei cambi di direzione palla al piede, buonissime capacità sia nello stretto che in campo aperto. Abile nell’uno contro uno, più portato ad appoggiare i compagni muovendosi tra le linee rispetto a Nicki Bille.

La domanda è: al di là della gara di domani col Madrid, seguirà anche in futuro  questa strada Paco Jémez?  I miei anni di militanza al seguito del calcio spagnolo penso mi valgano e anzi mi impongano il ruolo del vecchio trombone facile alle sentenze, per cui dico che no, questa scelta non mi sembra sostenibile sul lungo periodo. Per quanto io faccia il tifo perché lo sia (perché è una novità molto stimolante e perché in caso di successo confermerebbe la straordinaria ricchezza di possibilità di questo gioco), i rischi a cui si espone dietro il Rayo mi sembrano difficilmente superabili da una maggior scioltezza nel gioco offensivo, e se le prime giornate possono lasciare spazio alle sperimentazioni, alla lunga è meglio non scherzare col fuoco.

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mercoledì, settembre 19, 2012

Giustizia è fatta.


Avventurosa quanto si vuole, la vittoria di ieri premia non solo la caparbietà, ma anche il maggior talento, la migliore organizzazione e la superiore gestione della partita da parte di Mourinho contro il nulla cosmico proposto dal Manchester City di Mancini.
Sapete che qui ho sempre cercato di fare lo schizzinoso il meno possibile di fronte alle partite difensive, che possono racchiudere tanto buon calcio quanto un torello in area avversaria. L’importante è che quando si difende si abbia sempre un piano per passare alla fase successiva una volta recuperata la palla; stesso discorso quando la palla si perde. Limitarsi ad ammassare giocatori in avanti o all’indietro non è calcio. Affidarsi mani e piedi  a un mostro come Yaya Touré (ma  chi rimpiange ancora la sua cessione tenga presente che mai e poi mai avrebbe potuto giocare così nel Barça) per prendere palla, scrollarsi due-tre avversari di dosso con un’alitata e raggiungere l’area avversaria massimo in un  paio di falcate non è avere una transizione offensiva organizzata, non è avere una squadra equilibrata, non è giocare bene (per avere un’idea di cosa significhi giocare bene a partire da una proposta difensiva rivolgersi al sempre più entusiasmante Atlético Madrid) . Motivo sufficiente perché desse sincero fastidio che tanta taccagneria calcistica (inversamente proporzionale alle spese sostenute dallo sceicco) rischiasse di uscire col massimo della posta dal Bernabeu.

L’intelligente partita di Mourinho è al contrario la  dimostrazione di come la preoccupazione per gli equilibri di squadra non implichi rinunciare a giocare.
Il Madrid veniva da una serie di partite davvero preoccupante, l’ultima delle quali a Siviglia aveva visto una squadra disordinata in fase di possesso e costantemente esposta ai contropiedi andalusi. Nella sua migliore versione della passata stagione il Real Madrid si disponeva in campo in maniera decisamente ambiziosa: con Xabi Alonso che scalava fra i due difensori centrali per iniziare l’azione, i terzini partivano altissimi permettendo a Cristiano Ronaldo di fare quasi la seconda punta centrale con Benzema più che l’esterno: un meccanismo che quando la squadra non si trova al meglio e non sale coi tempi giusti, rischia di lasciare parecchio campo ai ribaltamenti  avversari, a maggior ragione se pensiamo che pur essendo una squadra molto tecnica e col possesso-palla costantemente dalla sua, il Real Madrid per caratteristiche è più portato a verticalizzare e meno a difendersi col pallone rispetto al Barça, con  un dispendio atletico qualitativamente diverso (non che il Barça corra poco, anzi, ma la maggior parte delle corse, se si vede ad esempio Xavi che spesso termina fra i primi quanto a chilometri percorsi, sono appoggi corti).

Quando il periodo non è dei migliori, Mourinho invece “blocca” un po’ la sua squadra: i terzini non partono più così alti, Cristiano torna un po’ più stabile sulla fascia e invece che la grande varietà di combinazioni sulla trequarti con Benzema si cerca la profondità più immediata di Higuaín. Ieri Mourinho è andato anche oltre, rinunciando a qualsiasi trequartista (Özil, Modrić e Kaká in panchina) e piazzando una barriera di tre nel mezzo, Khedira e Essien qualche metro avanti e ai lati di Xabi Alonso, con il tedesco più portato a inserirsi. Così si soffoca l’inizio dell’azione del City e si dà sufficiente copertura a Cristiano Ronaldo e Di María completamente liberati nell’uno contro uno coi terzini del City (uno contro uno perché sia Silva che Nasri, poi infortunato, vengono molto al centro in fase di possesso e non hanno il tempo di ripiegare in aiuto: soprattutto Maicon vede i sorci verdi contro Cristiano).
Un Madrid che domina tranquillamente  perché così giocando il suo centrocampo è sempre ben piazzato sulle respinte della difesa del City (a parte le progressioni isolate di Yaya Touré) e  perché lo stesso Mancini gli cede in parte questa superiorità a centrocampo sulle respinte difendendo tutto nella sua area di rigore. Un tipo di difesa che potrebbe andare bene contro il Barcellona, che gioca senza attaccanti d’area, scarseggia di ali in grado di conquistare il fondo e non tira mai da fuori, ma che al Madrid non fa né caldo né  freddo: anzi, non fa che dare continuità al gioco merengue.

Il gol non arriva per questione di dettagli (come l’ottima prestazione di Hart) e anche perché alla lunga l’impostazione madridista difetta di creatività. Con la mediana più portata a bloccare i rilanci avversari o al massimo all’inserimento, il compito di sviluppare la manovra ricade maggiormente sulla fascia sinistra di Cristiano Ronaldo e soprattutto Marcelo. In parte è sembrato di rivedere un Marcelo dal peso sulla manovra simile a quello della stagione 2010-2011, prima cioè che Mourinho modificasse il sistema di gioco basandolo su Xabi Alonso  come spiegato in precedenza.
Se il “sistema-Xabi” ha fatto guadagnare eccome a tutta la squadra la scorsa stagione, ha fatto perdere invece qualcosa a Marcelo,  che col movimento a scalare del basco fra i difensori centrali si è visto “espulso” verso la fascia, lui che da terzino atipico più che tenere la posizione esterna ama portare palla centralmente e inventare come un fantasista. Da fantasista (anche nonostante la deviazione) il suo gol, quando già Mourinho aveva inserito maggiore creatività con gli ingressi di Özil e Modrić e la partita rischiava incredibilmente e immeritatamente di sfuggire di mano.

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domenica, settembre 16, 2012

Tito vola basso.



Pure a punteggio pieno dopo quattro giornate, il Barça di Tito Vilanova non convince del tutto. Al di là della noia mortale di alcune sue partite, e senza dimenticare che è ancora prestissimo per dare giudizi, emerge una sensazione di rigidità che contrasta con le stagioni precedenti.

Nulla di più falso dell’affermazione secondo cui col cambio di allenatore il Barça continua a giocare allo stesso modo. Quello fra Guardiola e Vilanova per il momento ricorda un po’ il passaggio da Aragonés a Del Bosque nella nazionale spagnola. Sempre possesso-palla fino all’indigestione, ma in una chiave più difensiva. L’idea di minimizzare i rischi predomina su quella di creare superiorità, ovviamente senza richiamare nemmeno alla lontana gli eccessi di “tiqui-naccio” della Selección.
Si pensava inizialmente a un semplice ritorno a un uso stabile del 4-3-3, sconfessando l’esperimento affascinante ma non del tutto riuscito del 3-4-3/3-3-4 dell’ultimo Guardiola, però il 4-3-3 utilizzato finora da Vilanova è assai diverso da quello consolidato da Pep. Anzi, quasi non è più un 4-3-3, ma un 4-4-2 in cui i due attaccanti sono le ali.

Alla fine della stagione del Triplete, Guardiola lanciò questo benedetto 4-3-3 col falso centravanti. Storia raccontata fino alla noia: tenere larghi Henry e Eto’o perché Messi potesse ricevere più libero fra le linee. Fondamentale a tal fine era che le due ali pur partendo molto larghe potessero in qualsiasi momento minacciare la diagonale in profondità e così tenere impegnati i due centrali avversari, impossibilitati perciò a uscire dalla linea difensiva per raddoppiare su Messi.
Ciò che cambia con Tito è che ora le due ali restano inchiodate quasi sempre alla linea del fallo laterale, e questo fa tutta la differenza del mondo. L’obiettivo non è più guadagnare metri in avanti, ma garantire lo “spazio vitale” ai palleggiatori in mezzo. Con le due ali fisse, i terzini avversari non possono stringere al centro, e quindi il Barça ha la costante sicurezza del possesso-palla, perché il  quadrilatero Busquets-Xavi-Iniesta-Messi (con Cesc e Thiago come alternative) ha costante superiorità sui due centrali di centrocampo avversari.

Di quadrilatero si parla perché non si tratta più di vedere Messi una linea più avanti di Iniesta, coinvolto (anzi, decisivo) negli sviluppi della  manovra ma comunque ancora inquadrabile più come attaccante. Ora così come Xavi in più di un momento si abbassa sulla linea di Busquets per avere più opzioni sicure all’inizio della manovra, Messi si defila leggermente sul centro-destra, quasi speculare alla posizione di Iniesta. Entrambi ricevono ai lati dei due mediani avversari, e da lì il Barça può tenere palla quanto vuole.
Il punto però è che Messi riceve ancora più lontano dalla porta, e di fatto l’attacco del Barça non agisce più sui difensori centrali avversari. Non li minacciano le due ali che la maggior parte del tempo restano larghissime, e non li minaccia (almeno immediatamente, perché poi se parte son comunque dolori) Messi, che come detto gioca più sulla stessa linea di Iniesta. Praticamente il Barça ora usa una linea in meno per attaccare rispetto a quanto facesse col 4-3-3 col “vero” falso centravanti (perdonatemi), per non parlare del 3-4-3/3-3-4 che era tutto basato sull’idea di rendere inutile qualsiasi tentativo di pressing alto avversario aumentando e disponendo i palleggiatori culè su ancora più linee.

Giocando così, per cambiare ritmo e creare pericolo il Barça finisce col dipendere ancora di più dalla capacità di Messi di prendere palla, avanzare, attirare tutti su di sé gli avversari e smarcare i compagni. Il problema è che questo sistema sembra sostenibile solo con Messi in campo: una simile efficacia offensiva, che rende l’argentino pericoloso quando prende palla sulla trequarti come se la prendesse nell’area piccola avversaria, non ce l’ha nessun altro al  mondo, e non ce l’hanno nemmeno i pur formidabili Iniesta, Cesc, Xavi e Thiago. Pare francamente un appiattimento eccessivo sulle qualità dell’argentino, che alla lunga potrebbe diminuire il potenziale complessivo della squadra e mortificare altri giocatori, irrigiditi in una snervante orizzontalità.
Emblematica la situazione delle ali: il ruolo di “guardalinee” ormai loro richiesto ha portato Vilanova a insistere fin troppo sul giocatore più limitato della rosa, Tello, limitando tanto al tempo stesso Alexis Sánchez, che da ala destra rigida non solo non ha mai avuto il dribbling secco, ma irrigidito in questa posizione non può nemmeno eseguire i movimenti senza palla visti la scorsa stagione, tagli verso il centro a portare via i difensori e aprire spazio ai compagni.

A questo punto viene quasi da chiedersi il perché dell’acquisto di Jordi Alba, che per quanto già si sapesse che non avrebbe potuto replicare quello della nazionale (per semplici ragioni di contesto: nella nazionale era quasi l’unico che correva in avanti e aveva sempre tutto  il campo davanti…nemmeno al Valencia ci eravamo completamente accorti delle sue spaventose doti di corsa), ora con Tello piantato davanti, semaforo sempre sul rosso, ha ben poche possibilità di sfogo offensivo.
I terzini non partono più così alti, si sovrappongono solo nelle ultime fasi dell’attacco, e questo assieme al “quadrilatero di sicurezza” del centrocampo sulla carta diminuisce le possibilità di farsi trovare scoperti una volta persa palla; ma va anche detto che il fatto di attaccare su una linea in meno dà più possibilità ai difensori centrali avversari, non più immediatamente minacciati, di uscire ad accorciare, e quindi anche di recuperare il pallone più vicino alla metacampo difensiva del Barça. Finora i blaugrana hanno rischiato ben poco a dire il vero, ma questo potenziale problema è già emerso nella trasferta sul campo dell’Osasuna, vittoria sofferta e immeritata.

Una possibilità di modificare il nuovo sistema di Vilanova viene però dal recupero di David Villa: anche partendo dalla fascia, il Guaje, pur non essendo un irreprensibile esecutore del “juego de posición”, rappresenta di per sé profondità, attacco ai centrali avversari e una linea in più su cui sviluppare l’azione offensiva. Pure volendo, non potrà mai scimmiottare Tello. Sicuramente col suo rientro in pianta stabile vedremo qualcosa di diverso nel Barça, anche se l’insistenza già mostrata da Tito Vilanova nel bloccare Alexis largo (quando già l’anno scorso il cileno dimostrò di funzionare come alternativa per il centro dell’attacco, dettando parecchia profondità) rivela come quella intravista finora sia un’idea di gioco abbastanza forte nel nuovo tecnico blaugrana.

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mercoledì, maggio 23, 2012

SPECIALE FINALE COPA DEL REY

In occasione della finale di Copa del Rey, e per celebrare anche l'ultima di Guardiola sulla panchina del Barça, pubblico uno speciale che intende analizzare il modello di gioco comune alle due squadre e le affinità e le differenze all'interno di questo modello.
La prima parte analizza le basi teoriche del gioco praticato dal Barça in questi ultimi anni (e ancora prima di Guardiola); la seconda parte prende spunto dalla prima per vedere in cosa l'Athletic di Bielsa si discosti; la terza ripercorre i precedenti fra le due in questa Liga appena concluso per poter anticipare i possibili scenari di venerdì.

Athletic-Barça, così uguali così diversi

Prima parte: il "juego de posición"
Seconda parte: la differenza dell'Athletic.
Ultima parte: Precedenti e possibili scenari.

Ho cercato di accompagnare alle mie pallosissime elucubrazioni teoriche la concretezza dei numeri, e devo perciò ringraziare per la collaborazione "Opta", azienda leader specializzata nella raccolta ed analisi dei dati sportivi, che potete trovare a questi link:



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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Ultima parte: precedenti e possibili scenari.


E’ chiaro comunque che venerdì anche la squadra più offensiva della Liga e forse d’Europa dovrà preoccuparsi prima di tutto della fase difensiva, obbligo che il Barça impone indifferentemente a tutti gli avversari.
A questo proposito, è interessante ripercorrere le due sfide di Liga, dove l’Athletic ha proposto atteggiamenti abbastanza differenti. All’andata (splendida partita) la consegna era quella di pressare anche i pali della porta del Barça: si voleva impedire il primo passaggio dalla difesa al centrocampo, e quindi si concentrava una gran quantità di uomini in prossimità del pallone. Il merito del Barça in quella circostanza fu di riuscire a trovare il lato opposto, necessariamente meno coperto dall’Athletic, grazie a un Valdés straordinario nel cambiare gioco soprattutto verso la fascia destra. Saltata la prima linea del pressing basco (i tre attaccanti+le due mezzeali), in più di un’occasione Alves riceveva alle spalle di questa, con campo per correre.
Ciò che frenò il Barça fu in parte l’attacco scelto da Guardiola per l’occasione, con Adriano ala sinistra, Cesc centravanti e Messi a destra. Messi già pronto a ricevere centralmente sui rinvii di Valdés avrebbe potuto fare sfracelli, ma partendo dalla fascia dava un riferimento in più all’Athletic per aggredirlo e non farlo girare. In più tra Adriano e Cesc il Barça minacciava poco la profondità e quindi permetteva a Javi Martínez e Amorebieta di accorciare e giocare d’anticipo.

Al ritorno Guardiola ha invece giocato con Messi centrale e due esterni che gli creavano più spazi per ricevere sulla trequarti, Tello incollato alla linea laterale sulla sinistra e Alexis sempre pronto a tagliare e portare via i centrali dalla destra.
Qui però cambia il concetto difensivo dell’Athletic: non totalmente giudicabile in vista della partita di venerdì per aver preservato Muniain, Llorente e Ander Herrera, nell’occasione però l’Athletic giocò un’ottima partita difensiva a partire da una strategia leggermente più attendista. Sempre “a uomo nella zona”, aggredendo gli avversari, ma con due dettagli sensibilmente differenti: il primo il baricentro più basso, ripiegando e non pressando subito i difensori del Barça; il secondo la maggior attenzione alla copertura degli spazi, nel senso che mentre Ekiza e Iturraspe agivano quasi come due stopper rispettivamente su Messi e Iniesta, alle loro spalle Javi Martínez agiva praticamente da libero, lui che nell’Athletic a noi più familiare deve e ama uscire dalla linea difensiva.
Un Athletic che nell’occasione faceva passare in secondo piano l’obiettivo della riconquista immediata del pallone, pensando più a negare la profondità al Barça. Barça che in questo ciclo di Guardiola ha sofferto più di tutte le squadre che non andavano subito a cercare di rubargli palla ma quelle che aspettavano nella loro area limitandosi a difendere le linee di passaggio sulla loro trequarti, senza andare incontro a Messi e regalando un po’ le fasce ai catalani, cui manca presenza in area piccola e dribbling secco nelle ali, che di fronte a questa situazione spesso ricorrono a un nuovo passaggio indietro verso la trequarti già intasata. È chiaro che mai e poi mai quest’Athletic proporrà qualcosa di simile al Levante, al Chelsea o all’Inter di due anni fa, però quello della gara di ritorno è un precedente che va tenuto a mente in vista di possibili correzioni ad hoc di Bielsa.

Nell’occasione peraltro il Barça riuscì a superare alla lunga il sistema difensivo dell’Athletic con una manovra paziente e ritagliata proprio sulle caratteristiche difensive dell’Athletic. Di fronte alla difesa a uomo di Bielsa la risposta di Guardiola fu accentuarne i possibili inconvenienti caricando il gioco di volta in volta sul giocatore che non ha nessuna marcatura. Poiché l’Athletic gioca con tre attaccanti contro quattro difensori, uno dei difensori blaugrana rimane libero: nell’occasione Piqué e Mascherano furono ancora più presenti nella manovra. Bloccando ali e terzini dell’Athletic con Alves/Alexis da un lato e Adriano/Tello dall’altro, il Barça sgombrava il centro all’avanzata di uno dei due difensori centrali, fino a quando i centrocampisti dell’Athletic non erano costretti alla difficile decisione di cambiare la marcatura, magari correndo il rischio di dimenticare un momento uno fra Thiago, Messi e Iniesta.
Per l’Athletic il possibile vantaggio di un pressing alto come quello dell’andata sarebbe di togliere continuità al possesso-palla del Barça. Va detto che quest’anno i blaugrana hanno perso più palloni del solito sulla loro trequarti, complice la brutta stagione di Xavi (declino?) che ha tolto alla squadra di Guardiola parte della sua capacità di ordinarsi e difendersi meglio attorno al pallone; quindi l’Athletic avrebbe più possibilità di recuperare palla vicino all’area e creare occasioni. Al tempo stesso però se magari con questa strategia limiti nel numero le avanzate del Barça, quelle che rimarranno saranno pericolose al massimo. In poche parole, se il Barça fa filtrare un pallone oltre questo pressing (e almeno uno-due a partita filtrano), Messi ha inevitabilmente troppo campo.
Con l’altro sistema, più attendista, il rischio è quello di non riuscire mai a ripartire, contando sul fatto che giocando a uomo l’avversario può portarti apposta fuori dalla loro zona prediletta i tuoi giocatori migliori, soprattutto Muniain e Ander, e allontanarli troppo da Llorente. A quel punto il Barça creerebbe meno occasioni nitide, ma sarebbe una gara di nervi in una sola metacampo: vince chi ha più pazienza.


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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Seconda parte: la differenza dell'Athletic.



A partire da questo modello di base (Barça primo nella Liga per numero di passaggi totali, Athletic terzo), le differenze  fra le due finaliste di Copa del Rey sono però notevoli. Se il Barça di passaggio in passaggio si struttura e si ordina lungo l’asse orizzontale, l’Athletic Bilbao ha l’ossessione della verticalità. Significativo il modo in cui le due squadre concepiscono il gioco sulle fasce (chiarissima la differenza statistica: il Barça è la terzultima che crossa meno nella Liga con 12,5 cross di media a partita, l’Athletic settimo ma con una media, 17,1 molto vicina al Valencia primo classificato con 20, oltre ad essere la squadra con più gol segnati di testa di tutta la Liga, 19, grazie a un certo Llorente primatista con 10 “cabezazos”): il Barça come detto mantiene sempre il riferimento largo come necessità vitale, però nel corso dell’azione solo un giocatore si trova ad attaccare gli spazi laterali. Questo può essere l’ala quando ha la possibilità di conquistare il fondo (soprattutto quando il Barça gioca con la difesa a 3 ed è l’unico esterno di ruolo), oppure il terzino in sovrapposizione. Due giocatori di fascia nel 4-3-3, però generalmente solo uno alla volta resta largo.
L’Athletic all’opposto sovraccarica le fasce. In particolare sulla destra abbiamo visto una delle soluzioni tattiche più originali, interessanti e spettacolari della stagione. Curioso come sebbene nessuno dei migliori giocatori della squadra (Llorente, Javi Martínez, Muniain) vi agisca, sia stata proprio questa zona a definire più di tutte l’identità della squadra. Gran parte del gioco passa per questo lato, per il trio Iraola-De Marcos-Susaeta, un rullo compressore, una miniera di grande calcio.


Iraola non ha fatto che confermare ed esaltare come non mai, con l’allenatore giusto, le proprie qualità offensive, non solo accompagnando l’azione, ma anche portando palla, superando la pressione avversaria e combinando come un centrocampista aggiunto; la stagione di Susaeta invece è stata straordinaria: forse il meno appariscente dei tre, ma forse anche il più completo e continuo.
Partito riserva nelle primissime uscite, reduce da un certo accantonamento nell’ultima gestione Caparrós e alle prese con una crisi di autostima (Rinfacciatagli da Bielsa: “Oiga, Markel, usted tiene un problema. Yo creo en usted, pero usted no cree en usted. No se tiene fe. Y es una pena porque reúne aptitudes”), “Susa” si è rigenerato al punto da risultare insostituibile, spremuto come un limone in tutte e tre le competizioni. Senza numeri palla al piede sbalorditivi e senza accelerazioni devastanti ma con una quantità di contributi utili al gioco della propria squadra che è arduo far stare in una sola pagina. Preziosissima la sua capacità di alternare sempre con criterio “rottura” in profondità e appoggio incontro al portatore di palla, fintando un movimento per poi eseguire l’altro e ricevere palla smarcato: un modo per dare sempre continuità all’azione, sia che si trattasse di offrire lo sbocco per il primo passaggio a difensori e centrocampisti sia per arrivare sul fondo o all’inserimento in area di rigore, dove in più di un’occasione ha fatto valere un tempismo e una freddezza superiori, pur nell’abissale differenza di talento tra i due, a quelli posseduti dall’altro attaccante esterno Muniain.
De Marcos è più limitato, gioca su meno registri, ma nella sua monotonia è l’immagine dell’Athletic di Bielsa. Della sua aggressività, del suo dinamismo inesauribile e della sua ricerca maniacale della profondità. Inizialmente inquadrato come terzino di spinta, un’intuizione già anticipata da Caparrós e perfettamente adeguata alle sue caratteristiche, De Marcos è in realtà esploso come mezzala destra, direi come falsa mezzala perché in realtà il suo comportamento è quasi quello di un atipico “terzo esterno”. Il movimento ricorrente è infatti un taglio senza palla dalla fascia verso il centro, nello spazio fra terzino e centrale avversario; incrociando questi tagli con le proiezioni di Iraola e i movimenti di Susaeta, il risultato è che quando non conquista il fondo con irrisoria facilità l’Athletic comunque schiaccia e sbilancia comunque l’avversario verso quel lato.
La profondità raggiunta da questo trio è evidenziata anche dal dato statistico che vede Susaeta (con 127) al terzo posto e De Marcos al sesto (99) della classifica per tocchi realizzati in area avversaria (Iniesta del Barça invece è quinto, con 109). Segno che da quella parte l’Athletic arriva che è una bellezza.


A questa girandola sulla destra l’Athletic unisce una aggressività in fase di finalizzazione raramente riscontrabile: personalmente non mi era mai capitato di vedere una squadra che in più di una occasione porta i suoi terzini contemporaneamente al cross da un lato e alla conclusione dall’altro. Non si tratta di vedere Aurtenetxe attaccare una respinta appena entrato in area…no, il pazzo va ad attaccare direttamente il secondo palo!!!
Sembra quasi che l’Athletic cerchi nell’area avversaria non una semplice superioriità “di posizione” (ad esempio Llorente in inferiorità contro tre difensori ma che comunque riesce a smarcarsi), ma una vera e propria parità se non superiorità numerica rispetto all’avversario. Sommando a Llorente una delle due mezzeali che si inserisce, Muniain, uno dei tre della catena di destra che va ad aggiungersi in area e magari anche Aurtenetxe, l’Athletic attacca con non meno di 3-4 opzioni l’area di rigore. Se aggiungiamo che il movimento sulla fascia destra per la sua logica è portato a “svuotare” la zona centrale, si capiscono le implicazioni in transizione difensiva dove l’Athletic volutamente accetta un rischio notevole.
Se l’Athletic perde palla sulla trequarti, Iturraspe rimane letteralmente solo a centrocampo, e con una prateria da coprire. Questo spiega anche rispetto alla gestione Caparrós l’accantonamento di San José in difesa da parte di Bielsa: centrale talentuoso ma più compassato e senza la tendenza a uscire molto dalla zona che invece hanno l’ultra-aggressivo Amorebieta e il riconvertito (alla fine con notevole successo) Javi Martínez, che letteralmente si mangia il campo con le sue falcate e che si trova a suo agio nel gestire questi grandi spazi in transizione difensiva e ad accorciare in avanti (e sia lui, nono con 163, che Amorebieta, diciannovesimo con 163, sono fra i primi 20 per palloni intercettati…mentre il possesso-palla tirannico fa sì che nemmeno uno del Barça figuri in questa graduatoria!). Spazi che forse potrebbero essere leggermente ridotti con una piccola modifica in fase di finalizzazione, scaglionando Muniain e Aurtenetxe alle spalle della prima linea di finalizzatori, invece che buttarli tutti sulla stessa linea in area avversaria: si potrebbe guadagnare in entrambe le fasi, perché con giocatori su più linee avresti più possibilità sia di arrivare alla respinta su una ribattuta della difesa avversaria, sia quella di bloccare il contropiede nascente una volta persa palla.
Una semplice differenza nel ritmo e nella tipologia di passaggi ha comunque ricadute profonde in tutti gli equilibri delle due squadre: l’Athletic costretto a cercare più frequentemente di finalizzare l’azione per non avviare i ribaltamenti avversari, il Barça portato invece al passaggio in più se questo serve per popolare maggiormente la fascia centrale e farsi trovare subito pronto quando l’avversario cerca di rilanciare l’azione (tendenza confermata dalle statistiche: dei primi 20 giocatori per passaggi nella metacampo avversaria, addirittura 12 sono culè, mentre dell’Athletic, molto più diretto, c’è solo Ander Herrera, tra l’altro ventesimo con una media di passaggi-31, 9, che è la metà di quella di Xavi-68,5, prevedibilissimo primo classificato; altra conferma, ancora più diretta, dei differenti rischi corsi dalle due squadre, è il numero di parate totali, che vede Gorka Iraizoz al secondo posto della Liga e Valdés invece all’ultimo).

Ad inizio azione l’Athletic sgombra la propria metacampo: i terzini partono alti, i due difensori centrali ben aperti+Iturraspe, vertice basso del centrocampo, avviano la manovra, con tre opzioni principali: 
1) passaggio verso Iraola, e da lì innescare il triangolo con Susaeta e De Marcos;
2) passaggio verso un compagno che dalla trequarti viene incontro: può essere Susaeta, come detto, oppure Muniain retrocedendo e tagliando centralmente dalla fascia sinistra, oppure ancora Ander Herrera. Giocatori che per liberarsi si muovono in senso inverso e in maniera sincronica rispetto al compagno più vicino nella loro zona: per esempio, Susaeta riceve nello spazio lasciato libero da De Marcos che ha accennato la profondità, portandosi via il terzino; Muniain incrocia centralmente nel mentre che Ander si allarga; oppure ancora uno di questi riceve tra le linee sfruttando il blocco di Llorente sui due centrali. L’Athletic prepara bene questi movimenti ed è piuttosto spettacolare vedere come se il difensore non trova da principio il passaggio buono in verticale subito gli si presenta una terza opzione grazie alle rotazioni continue di mezzeali e attaccanti.
3) Terza e ultima soluzione, risorsa d’emergenza anche se non impossibile da vedere, il lancio lungo dalla difesa verso la testa di Llorente, ovvero il mono-schema della gestione Caparrós.

Va detto che questo dell’inizio dell’azione è un aspetto che l’Athletic può ancora migliorare. A volte l’ansia di dettare subito il passaggio in verticale porta ad allontanare eccessivamente il resto della squadra dai tre che iniziano l’azione, che senza opzioni di passaggio sicure rischiano di perdere palla con la squadra spezzata in due in transizione difensiva.
A De Marcos non si chiede questo lavoro, trattandosi di un giocatore praticamente allergico alla zona davanti alla difesa: difficile pensarlo come centrocampista in un contesto diverso da questo Athletic, in una squadra magari che facesse un possesso-palla su ritmi più bassi e che quindi invece di attaccare lo spazio e finalizzare subito gli chiedesse di ricominciare l’azione e venire incontro agli altri centrocampisti (impensabile quindi come centrocampista nella nazionale del tiqui-taca, dove da terzino potrebbero risultare  invece preziose la facilità di corsa e la propensione offensiva); Ander Herrera invece, il giocatore che per caratteristiche sarebbe più portato a controllare i tempi di gioco e aiutare ad inizio azione, ha finito col giocare (benone) molto più davanti che dietro la linea della palla.

Quando poi manca l’insostituibile Llorente i problemi in tal senso si aggravano: le comprensibili ristrettezze della rosa hanno costretto a proporre come sostituto un Toquero totalmente inadeguato da centravanti. Gaizka non sa cosa significhi appoggiare i compagni e propone sempre lo stesso movimento, una diagonale dal centro verso la fascia che alla fine risulta prevedibile e toglie alla squadra un riferimento offensivo su cui poggiare il gioco. Questo ancora prima di sottolineare la mancanza in area che il suo impiego al posto di Llorente comporta, oltre all’impossibilità di semplificare il gioco col lancio lungo verso la torre.
Ha sofferto l’Athletic (un po’ lo Sporting in semifinale, molto l’Atlético nella finale di Uefa) squadre che trovassero il modo di scollegare Javi Martínez-Amorebieta-Iturraspe dal resto della squadra, non pressando direttamente i difensori dell’Athletic ma sporcandogli le linee di passaggio verso Muniain, Ander & C., sui quali sì scatta il pressing.
L’arretramento di Javi Martínez ha portato più capacità nel primo passaggio, ma Amorebieta nonostante un buon sinistro (più potente che preciso comunque) spesso non sa distinguere i momenti in cui portare palla e attirare l’avversario da quelli in cui passare, e così capita ancora di vederlo sparacchiare il pallone, anche se meno delle stagioni passate. Iturraspe dal canto suo è un giocatore dalle buone qualità tecniche e tattiche, ma un po’sopravvalutato se l’intenzione è considerarlo un organizzatore: separato da Ander & C., denuncia qualche difficoltà nel far guadagnare metri alla squadra.
Un problema (ovviamente relativo, perché non dedicheremmo un articolo tanto esteso a una squadra che avesse giocato male) sul quale forse la società potrebbe intervenire contrattando uno o due giocatori più portati a ricevere palla dai difensori e dare i tempi ai compagni, come possono essere Beñat del Betis (scuola Lezama) o Mikel Rico del Granada.


Altro aspetto migliorabile è la partecipazione al gioco del settore sinistro della squadra, dove paradossalmente si concentra la maggior qualità. Strana stagione quella di Muniain, con la conferma di un talento raro e picchi straordinari però più dipendenti dalla qualità individuale (settimo nella media di dribbling riusciti a partita, subito dietro di lui Iniesta, primo naturalmente Messi)che da un inserimento perfettamente riuscito nei meccanismi collettivi. Strano vederlo pesare meno nella manovra di quanto non facciano i cursori della destra. A volte sembra soffrire la posizione di partenza sulla fascia e fare fatica a entrare nel vivo: per quanto Bielsa chieda alle ali dell’Athletic una posizione molto meno rigida rispetto a quelle di altre squadre da lui allenate (tipo l’Alexis Sánchez dell’ultimo mondiale), Iker in più di un’occasione è sembrato attendere il momento in cui una correzione alla formazione di base lo liberasse centralmente (secondo tempo di Siviglia, o la tipica mossa d’emergenza di spostarlo nei tre di centrocampo quando la squadra si trova in svantaggio). In generale possono ancora migliorare i meccanismi fra lui e Ander Herrera, e crescere la loro presenza ad inizio manovra. Non è strano peraltro che nel primo anno di un nuovo progetto una squadra risulti più sviluppata in un settore che in un altro: lo stesso mitizzatissimo Barça del Triplete elaborava praticamente tutto la sua manovra sul lato destro di Messi-Xavi-Alves.

Altra caratteristica particolarissima dell’Athletic, è la marcatura praticamente a uomo. Non si assegna un avversario fisso da marcare, ma una volta che capita nella tua zona lo segui fino agli spogliatoi. Si inizia col pressing altissimo, con gli attaccanti che formano coppie coi difensori avversarii, per proseguire negli altri reparti dove capita di vedere Aurtenetxe recuperare palla più avanti di Muniain, o Iraola ripartire da una posizione centrale mentre Javi Martínez ne ha rilevato la posizione correndo dietro al taglio di un attaccante.
Una soluzione sicuramente dispendiosa: proseguendo nel confronto con lo stile di gioco del Barcellona, il tipo di sforzo richiesto ai giocatori dovrebbe essere sicuramente più pesante. L’ispirazione di fondo è la stessa, ma in un caso deve correre il pallone e nell’altro i giocatori. Lo sforzo è non solo quantitativamente ma anche qualitativamente diverso perché nel caso dell’Athletic implica una componente più fisica della fatica, mentre per il Barça predomina la fatica “mentale”, perché i giocatori pur non correndo necessariamente meno percorrono distanze più corte, ma oltre all’avversario devono sempre tenere presente lo spazio e le distanze dai compagni.
Per quanto non ortodossa, è una soluzione che si è dimostrata abbastanza efficace, e anzi i possibili squilibri difensivi dell’Athletic nascono più, come spiegato sopra, dalle transizioni, dal modo in cui la squadra attacca e si trova schierata non appena perde palla, che dalla vera e propria fase difensiva, che pur lontana dalla perfezione tattica beneficia della grande dedizione di tutti i giocatori.

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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Prima parte: il "juego de posición"


Barça-Athletic, finale di Copa del Rey, è la sfida fra le due squadre più offensive della Liga, ed è anche, ahinoi, l’ultimo confronto diretto, almeno per qualche tempo, fra Marcelo Bielsa e Pep Guardiola.
A partire dalla famosa “chiacchierata” di 11 ore fra i due (quando Bielsa, reduce dalle delusioni con la nazionale argentina, staccò dal calcio esiliandosi nella sua casa di campagna, dove un Guardiola deciso invece a iniziare la sua carriera di tecnico si recò in cerca di consigli) e dalle ricorrenti dichiarazioni di stima di Guardiola verso il Loco (inserito fra i propri ispiratori, assieme a Van Gaal, Lavolpe e Juanma Lillo), i due son stati sempre accomunati dalla medesima filosofia di gioco che affonda le proprie radici nella rivoluzione del Calcio Totale all’olandese degli anni ’70.
Guardiola ha rappresentato il punto più alto di un modello come quello del Barça, che partendo dai primi tentativi, un po’ più isolati, di Rinus Michels alla guida della prima squadra nel 1973, e di Laureano Ruiz alla guida del settore giovanile nel 1972, si è affermato con Johan Cruijff e il suo Dream Team, passando per Van Gaal e Rijkaard. Un calcio che concepisce l’equilibrio di squadra a partire dal controllo totale del pallone, superando la separazione schematica fra fase difensiva e offensiva.
Marcelo Bielsa invece passa alla storia del calcio sudamericano come una sorta di “terza via” nello stucchevole dibattito fra “bilardisti” e “menottisti” che ha segnato un’epoca del calcio sudamericano. Chi seguiva Bilardo predicava un calcio cinico (e eticamente non irreprensibile, a dirla tutta) e difensivo; la scuola di Menotti invece un calcio che privilegia la tecnica e la libera espressione dei talenti offensivi.
Bielsa rompe con questa dicotomia perché propone un calcio sì offensivo, ma dall’approccio sistematico, in cui è l’enfasi sull’organizzazione maniacale dei movimenti offensivi l’elemento discriminante, più che il semplice possesso-palla e la libertà dalla trequarti in su che invece caratterizza altri allenatori sì offensivi ma diversissimi dal Loco come il duo Valdano/Cappa o Manuel Pellegrini. Un calcio dagli schemi (a partire dalla scelta fissa per il 3-3-1-3 o 4-3-3) e dai ritmi che richiamano appunto più la tradizione olandese che quella sudamericana. Per bocca dello stesso Bielsa: “Esa es, para mí, la gran clasificación de los entrenadores: los que privilegian la resolución del juego a través de las respuestas individuales o los que acentúan en la preconcepción de esas respuestas. Creo en eso más que en la división entre defensivos y ofensivos. Esa caracterización es sumamente engañosa, porque los equipos no están preparados para una cosa o la otra, sino para las dos, en proporciones que nadie puede determinar de antemano."

La base è quello che in Spagna chiamano “juego de posición” , dove il possesso-palla ha l’obiettivo di creare situazioni di superiorità giocando rasoterra da un reparto all’altro, senza saltarne nemmeno uno (non solo quindi dai difensori ai centrocampisti e da questi agli attaccanti, ma anche il portiere deve se necessario smarcare i difensori alle spalle della prima linea avversaria che va in pressing). Apparentemente banale ma fondamentale non saltare nemmeno un passaggio della sequenza portieredifesacentrocampoattacco, perché di passaggio in passaggio si permette a tutta la squadra di salire in blocco nella metacampo avversaria mantenendo inalterato il disegno tattico (anche se all’interno di questo i giocatori si possono scambiare le posizioni) e mantenendo soprattutto costanti le distanze fra i reparti.
E’ un “gioco di posizione” perché il pallone e le posizioni dei giocatori “viaggiano” sempre insieme: è per questo che in più di un’occasione il Barça rinuncia alla possibilità di contropiede se le posizioni e le distanze fra i suoi giocatori non sono assicurate. Il primo rischio da evitare è quello di perdere il pallone, il secondo quello di allungare la squadra. Il “titic-titoc” di passaggi del Barça che qualcuno può trovare noioso (opinione legittima, qui non discutono mai i gusti) è in realtà una necessità vitale per sostenere un undici tanto offensivo, che diversamente non potrebbe mai sostenere 90 minuti di  andirivieni da una metacampo all’altra.
E’ per questo che il miglior Xavi diventa una preziosa arma difensiva, con la sua capacità di congelare il possesso e dare i tempi per salire a tutta la squadra. Il possesso-palla condiziona la fase difensiva non perché “se la palla ce l’abbiamo noi allora gli altri non ce l’hanno”, ma perché se i giocatori restano vicini quando ho il possesso lo saranno anche quando la perdo, e col blocco già nella metacampo avversaria sarà più facile esercitare un pressing che non nasce dal nulla.
Per fare questo occorrerà “girare” il sistema difensivo avversario, facendolo correre verso la propria porta, con centrocampo e difesa schiacciati l’uno sull’altro, l’attaccante o gli attaccanti isolati e senza il tempo e le distanze per rilanciare il gioco.
Per “girare” il sistema difensivo avversario occorre creare le superiorità da un reparto all’altro: se crei queste superiorità nel mentre che pallone e posizioni viaggiano insieme, hai raggiunto l’equilibrio e il controllo delle transizioni, quindi domini.


Tutto ciò pretende dai giocatori il rispetto di una serie di principi di condotta, con e senza palla, che distinguono il juego de posición da un semplice possesso-palla.

1) I giocatori non si dovranno mai disporre sulla stessa linea, bensì smarcarsi alle spalle della linea avversaria e distribuirsi formando una serie di triangoli per il campo. Da qui il ricorrente utilizzo di formazioni come 4-3-3 e 3-3-1-3.
2) Quello che conta non è necessariamente la superiorità numerica in una determinata zona, bensì la superiorità “posizionale”. Cioè in una determinata zona potranno anche esserci più avversari, ma se riesco a trovare l’uomo libero alle spalle di una linea avversaria allora pongo le premesse per generare un’altra superiorità alle spalle della linea successiva, come in una catena.
3) L’”uomo libero” è un concetto fondamentale nel juego de posición. L’uomo libero lo posso trovare o alle spalle della linea avversaria, come sopra, oppure sul lato opposto, cambiando gioco. Triangoli, giocatori ravvicinati e superiorità numerica nella zona della palla non hanno ragione d’esistere senza un riferimento largo, un “uomo libero” sul lato opposto, che può essere a seconda dei momenti del gioco o l’ala incollata alla linea del fallo laterale, oppure (una volta che l’ala taglia al centro) il terzino che ne rileva la posizione sovrapponendosi, oppure ancora una mezzala o un trequartista che si allontana volontariamente dalla zona della palla per offrire la possibilità di questo cambio di gioco (lavoro che Iniesta svolge magnificamente).
I due aspetti sono strettamente legati e necessari uno all’altro, perché l’uomo incollato al fallo laterale occupando quello spazio creerà lo spazio per un maggior numero di appoggi centralmente, e al tempo stesso allargherà il sistema difensivo avversario costringendolo a dividere le attenzioni: stringo più al centro e lascio scoperta la fascia sul cambio di gioco oppure mi preoccupo anche delle fasce ma corro il rischio di andare in inferiorità al centro? Così sarà più facile trovare l’uomo libero, che sia tra le linee sulla trequarti oppure largo con la possibilità di conquistare il fondo. In generale, anche se i reparti in blocco devono sempre mantenere le distanze, è sempre necessario, non solo sulle fasce, l’uomo che si allontana per generare questi spazi.
È anche chiaro che per eseguire questo gioco bisogna disporre della qualità per far correre rapidamente il pallone (farlo correre molto più di quanto non corrano i giocatori) da un lato all’altro senza rischio di perderlo, perché se alzo tanto i terzini per guadagnare più giocatori al centro, con una palla persa a centrocampo sarei spacciato sul contropiede avversario. Purtroppo questo non l’ha capito chi ritiene il juego de posición l’ennesima formula vincente a prescindere e cerca di scimmiottare malamente il Barça.
4) Posto che si gioca sempre in 11 contro 11 e quindi un uomo in più non ce l’abbiamo, come provocare allora l’apparizione dell’”uomo libero”?  Passando o portando palla a seconda dei casi. Se l’avversario gioca con una sola punta e io con due difensori centrali, allora uno dei miei due centrali sarà libero di avanzare palla al piede. Poiché non trova opposizione, gli avversari si sentiranno in dovere di andargli incontro per impedirgli di avanzare ulteriormente. A questo punto, se un avversario gli va incontro automaticamente dovrà lasciare un po’meno custodito un altro dei miei compagni, che si troverà in “superiorità posizionale” alle spalle della linea avversaria. E’ a quel punto, una volta “provocato” l’avversario, che il mio difensore potrà liberarsi del pallone e passarlo all’”uomo libero”. Questi potrà ricevere, girarsi, puntare, attirare un altro avversario che prima non aveva addosso e smarcare a sua volta un altro “uomo libero”. E così via. Nel juego de posición non ha senso passarsi il pallone tanto per passarselo, se prima non si è attirato l’avversario.
Se invece l’avversario difende con due punte sui miei due difensori centrali, allargo questi il più possibile in modo da generare il “dilemma” di cui al punto 3: il discorso dell’ampiezza per allargare la difesa avversaria e la necessità del riferimento sul lato opposto alla zona della palla valgono in ogni zona del campo, perché i principi per creare superiorità mantenendo la squadra equilibrata sono gli stessi, da un reparto all’altro. Questo tipo di inizio dell’azione potrà avere come variante la cosiddetta “salida Lavolpiana” (il vertice basso del centrocampo retrocede fra i due difensori centrali per avere la superiorità sui due attaccanti avversari). In ogni caso, poiché nessun reparto può essere saltato nell’elaborazione della manovra, sono indispensabili difensori con capacità nell’impostazione. Non solo e non necessariamente buon piede, ma anche la capacità di distinguere quando passare e quando portare palla per generare superiorità.

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