martedì, agosto 30, 2011

PRIMA GIORNATA: Barcelona-Villarreal 5-0

Se il buon giorno si vede dal mattino… il Real Madrid ne fa sei, il Barcellona cinque, ma al Villarreal. Viva l’equilibrio! La Liga è morta, l'hanno soffocata nella culla, dovremo arrangiarci con dei micro-campionati per ogni fascia della classifica, accontentandoci, in mancanza di altro, di qualsiasi buona proposta di gioco potranno offrire le singole squadre, prescindendo dalla classifica.

Perché calcio di buon livello si potrà vedere anche al di sotto delle prime due: il vero problema della Liga è che queste due sono troppo forti, non troppo scarse le altre. Se la credibilità del Zaragoza ha suscitato più di un sospetto, calcare i toni contro il Villarreal davvero non ha senso.

Intanto, abbiamo visto il “doppio falso centravanti”. Questa mi mancava. Uno dei pregi della gestione di Guardiola sta a mio avviso proprio nella capacità di rinnovare e arricchire anno dopo anno il discorso pur mantenendolo fermo, fermissimo nella sostanza di fondo. In questo senso trovare il modo di far giocare contemporaneamente Cesc, Iniesta, Thiago (Xavi), Messi, Pedro e Alexis Sánchez può rappresentare una nuova sfida, un nuovo stimolo per una squadra che dovrebbe partire sulla carta un po’ più appagata del Real Madrid.

Il Barcelona ieri si è presentato così:



Più che un 3-4-3, come riportato da più parti, direi un 3-3-4 caratterizzato dalla posizione atipica di Fabregas e Messi. L’ex Arsenal spesso si è fatto trovare in zone più avanzate rispetto a Messi, e Leo non si è abbassato di meno per prendere palla. In realtà vagavano in una zona di nessuno, quasi a chiudere un quintetto di centrocampisti, e a turno si inserivano in area di rigore.

Fondamentale in questo modulo il ruolo delle due ali, che devono sacrificarsi parecchio: non perché debbano ripiegare ad aiutare la difesa (l’idea è sempre la stessa: conquistare le posizioni nella metacampo avversaria, raccogliersi e rimanere lì, perché su basi diverse questo sistema sarebbe chiaramente insostenibile), ma perché devono fare quasi i guardalinee, devono sacrificare opportunità da gol personali per mantenere una posizione rigida. Questo perché sono loro gli unici a dare ampiezza (i difensori laterali non sono veri e propri terzini, ed essendo solo tre in retroguardia non è che possano sovrapporsi più di tanto in fase offensiva), e restando larghissimi devono aprire tutti gli spazi possibili al centro. Con un lavoro oscuro, anche senza toccare palla, permettono ai cinque palleggiatori nel mezzo di fare i loro comodi.

Pedro e Alexis bloccavano Zapata e Joan Oriol, impedendogli di aggiungersi al centro per raddoppiare sulle mezzepunte blaugrana. Posta questa premessa, il Barça poteva creare svariate situazioni di superiorità centralmente. Per Gonzalo e Musacchio è stato difficilissimo decifrare i momenti in cui uscire dalla difesa e tentare il raddoppio su Cesc e Messi, sufficientemente lontani dai difensori del Villarreal per ricevere fronte alla porta e arrivare a fari spenti. Quando magari un difensore usciva su Messi, Cesc nel mentre attaccava lo spazio alle sue spalle. Non solo, ma quando tutta la linea difensiva del Villarreal si alzava per accorciare su Cesc e Messi e togliere questo spazio tra le linee, allora capitava che fosse Iniesta ad attaccarla alle spalle inserendosi senza palla. Iniesta o anche una delle due ali, che pur sacrificandosi, aveva sempre la possibilità del taglio, vedi il gol di Alexis.

Altra situazione di superiorità scaturiva dalle due mezzeali, Thiago e Iniesta. Il Villarreal infatti cercava di ovviare all’inferiorità numerica al centro della mediana (tre+Cesc e Messi contro il doble pivote di Garrido) stringendo con gli esterni verso il lato della palla. Per fare un esempio, supponiamo che il Barça stia tenendo palla sulla sinistra, con Iniesta. Il terzino avversario è fuori causa, bloccato da Pedro; vicino a Iniesta ci sono Keita, Cesc e Messi. Il Villarreal cercherà di difendere con l’esterno che agisce nella zona di Iniesta, più Marchena e Bruno che scalano verso quella zona. La presenza di quattro giocatori blaugrana vicini però costringerà anche l’esterno del lato opposto, Cani, a scalare centralmente per evitare di lasciare spazio prezioso al Messi o Cesc di turno. Così rimane libera la mezzala blaugrana del lato opposto, in questo caso Thiago, che non potrà essere marcato perché Alexis blocca l’altro terzino. Il Barça ieri ha sfruttato molto bene questi movimenti di Thiago e Iniesta, “allontanarsi” rispetto al lato in cui si sta svolgendo l’azione per poi farsi trovare smarcati sul cambio di gioco.

Merita una menzione particolare la gara di Thiago, per la disciplina con cui ha interpretato un ruolo così delicato in un modulo tanto esigente: rispettando la propria posizione, senza andare a zonzo per il campo e senza rischiare una volta in possesso del pallone, ha fatto sì anche lui che il Barça non perdesse palla in zone pericolose e mantenesse uno schieramento ordinato per la transizione difensiva. Un po’ più intermittente la prova di Alexis Sánchez, che ancora ha in testa un calcio diverso da quello del Barça: si nota in certi momenti la sua tendenza a verticalizzare subito, sia nel giocare la palla che nel dettare immediatamente la profondità senza palla, senza aspettare che la sua squadra prenda prima le posizioni giuste nella metacampo avversaria.

Altra possibile situazione di superiorità (nel grafico sono tutte segnate col punto interrogativo rosso, in giallo i giocatori del Villarreal) il Barça potrebbe generarla coi difensori, in questo modulo fatto apposta per esaltare il gioco nella zona centrale del campo. Portando palla, i due difensori laterali, possono aggiungersi al centrocampo, costringere i mediani avversari a uscire e liberare ulteriore spazio per Thiago, Iniesta, Messi e Cesc. Una possibilità in realtà messa poco in pratica da Abidal e (ancora di più) Mascherano, un aspetto perfezionabile nelle prossime occasioni.

Una possibile vulnerabilità di questo 3-3-4 invece può manifestarsi all’inizio della manovra avversaria: visto ieri, il Barça pressa forte con Pedro-Cesc-Messi-Alexis che praticamente pareggiano i quattro difensori avversari che tentano di impostare, ma qualora un passaggio filtrasse, il Barça rischierebbe di trovarsi parecchio scoperto. I quattro centrocampisti avversari potrebbero manovrare in superiorità, e proporre sovrapposizioni sugli esterni difficilmente difendibili da un Barça che già deve tenere due attaccanti con soli tre difensori. Lo spazio fra Iniesta/Thiago (le mezzeali) e Abidal/Mascherano è perciò il più delicato, da qui l’esigenza di assicurare il possesso-palla fino a zone molto avanzate, per perderlo solo quando l’avversario è schiacciato dietro e ha difficoltà a ripartire.

Barcelona (3-3-4): Valdés; Mascherano, Sergio Busquets, Abidal; Thiago, Keita, Iniesta (Xavi, min.56); Alexis, Cesc (Dos Santos, min.70), Messi, Pedro (Villa, min.67) .


Villarreal (4-4-2): Diego López; Zapata, Gonzalo, Musacchio, Oriol; Marchena, Bruno, Borja Valero (Camuñas, min.50); Cani (Wakaso, min.64), Nilmar (Senna, min.61) y Rossi.


Goles:
1-0: m.25: Thiago. 2-0: m.45: Cesc. 3-0: m.47: Alexis. 4-0: m.51: Messi. 5-0: m.75: Messi.

Árbitro: Turienzo Álvarez. Mostró tarjeta amarilla a Zapata (min.20), Mascherano (min.33), Cesc (min.34), Wakaso (min.84) y Marchena (min.88).

Incidencias: Partido de la segunda jornada de Liga -la primera se suspendió por una huelga de la AFE- disputado en el Camp Nou ante 75.097 espectadores. Antes del inicio del encuentro se guardó un minuto de silencio por el fallecimiento de Heribert Barrera, quien fuera el primer presidente del Parlamento de Cataluña

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lunedì, agosto 29, 2011

PRIMA GIORNATA: Sevilla-Málaga 2-1

Per ora i fasti dell’Emirato di Al-Andalus sono lontani. Il nuovo ambiziosissimo Málaga è ancora un insieme raccogliticcio che necessita rodaggio. Dall’altra parte, manca ancora molto pure al Sevilla: ora come ora non lo vedrei per il quarto posto, però il progetto di Marcelino merita fiducia e pazienza, nonostante bruci l’eliminazione dalla Uefa per mano dell’Hannover.

L’idea sarebbe quella di tornare all’essenza dell’EuroSevilla di Juande Ramos, cioè a ritmi alti, gioco diretto, palla subito verso le punte, attacchi incessanti dalle fasce, centrocampo senza regista ma con un elemento molto offensivo che si stacca dall’altro mediano e va a inserirsi a rimorchio dell’attacco (ruolo che sta provando a ricoprire l’esterno di ruolo Trochowski, e che già nella seconda metà della passata stagione svolgeva Rakitic, con buoni riscontri realizzativi). Per ora cose soltanto intraviste, ma i tre punti sono un buon inizio.

Il Málaga ha perso perché non è mai riuscito a controllare il tempo del gioco, ad addormentarla un po’ questa gara. La chiave, come sempre in tutte le squadre di Pellegrini, dovrebbe essere il quartetto di centrocampo. Una storia che abbiamo raccontato mille volte: i due esterni in realtà non sono tali, devono stringere centralmente e consentire la superiorità numerica sui mediani avversari (nel momento stesso in cui le due punte di Pellegrini bloccano i difensori impedendo loro di uscire per raddoppiare), e al tempo stesso aprire lo spazio ai terzini per inserirsi a sorpresa.

Al Málaga tutto ciò è mancato, e mi concentrerei in particolare sulla gara di Joaquín. Per un verso il giocatore più attivo, quello che veramente le ha provate tutte, per un altro colui che ha sabotato l’idea di gioco di Pellegrini. Attenzione, non è che a Joaquín manchi il gioco nelle zone interne, anzi col tempo ha accentuato questa caratteristica: i movimenti del Valencia però sono ben diversi da quelli del Málaga. A Valencia giocava più di rimessa, con più spazio, a Málaga deve offrire quest’appoggio tra le linee con la difesa avversaria schierata.

Invece, i movimenti di Joaquín son stati sostanzialmente tre:

1) Abbassarsi, anche accentrandosi per prendere palla, ma MAI dietro la linea di centrocampo avversaria;

2) Restare largo per ricevere il cambio di gioco e da lì puntare come un’ala;

3) Attaccare lo spazio alle spalle del terzino avversario, dettando subito il passaggio verticale.

Questo non vuol dire che gli siano riuscite delle buone giocate, o che alcuni movimenti siano stati intelligenti (in particolare quelli del terzo tipo), ma il problema è che così collettivamente qualcosa non quadra nel Málaga. Nessuna legge impone di giocare coi falsi esterni, ma se l’idea di Pellegrini è cercare come sempre ha fatto la superiorità centralmente, allora deve ricalibrare il suo undici titolare tenendo conto della presenza di Joaquín: magari togliendo una punta per aggiungere un trequartista (Buonanotte o Isco) e lasciare a Joaquín la libertà di svariare sulle fasce (cosa che peraltro deve sempre fare una delle punte nel modulo di Pellegrini: Rondón nel primo tempo, Seba Fernández nella ripresa).

Ma il Málaga visto ieri non va bene: poca densità nella zona della palla, niente gioco tra le linee (schierare il fantasma di Cazorla certo non aiuta), si è ridotto a una circolazione di palla orizzontale, con cross scontati e nessuna possibilità di sorpresa dai terzini.

La scarsa continuità della manovra malaguista ha permesso a un Sevilla non irresistibile ma dalle idee perlomeno più chiare di fare la partita preferita: da una metacampo all’altra, rubare e ripartire negli spazi che lasciava un Málaga poco coordinato nei suoi tentativi di pressing alto (l’azione del primo gol, a inizio partita, è nata così, e anche un’occasione poco dopo) e “scollato” fra il centrocampo e una difesa sempre in ritardo nell’accorciare. Insomma, è stata la partita di Navas e Negredo, non di Cazorla e Toulalan.

I MIGLIORI: Negredo una vera bestia: migliora di partita in partita, sembra persino più veloce rispetto a qualche anno fa. Vince praticamente tutti i duelli, conquista tutti i palloni spalle alla porta, dà grande profondità con la sua corsa impetuosa, intimidisce in area di rigore e trova la porta praticamente da qualsiasi posizione, senza pensarci su. Lanciatissimo verso una maglia per l’Europeo.

I PEGGIORI: Una calamità la coppia Demichelis-Mathijsen. Negredo gli mangia in testa: non azzeccano un anticipo e si fanno rubare il tempo in area di rigore. Specialmente l’argentino (sul primo gol tenta da solo il fuorigioco, e Negredo gli scappa), che però resta un giocatore molto importante nell’idea di gioco di Pellegrini, soprattutto per la sua capacità di impostare, fra le migliori in assoluto della Liga. Il gol su punizione è stupendo, ma la partita di Cazorla resta orribile, mi spiace. Gli anni purtroppo passano anche per Van Nistelrooy: può dare ancora un contributo importante quanto a movimenti e conoscenza (impareggiabile) del ruolo, ma il decimo di secondo di vantaggio sul difensore lo ha perso.

Sevilla (4-4-2): Javi Varas; Cáceres, Spahić, Escudé, Fernando Navarro (1’ s.t. Coke); Navas, Medel, Trochowski, Perotti (19’ s.t. Armenteros); Manu del Moral (28’ s.t. Campaña), Negredo.

In panchina: Palop, Fazio, Alexis, Luis Alberto.

Málaga (4-4-2): Caballero; Jesús Gámez, Demichelis, Mathijsen, Eliseu (27’ s.t. Monreal); Joaquín, Toulalan, Apoño (1’ s.t. Maresca), Cazorla; Rondón (1’ s.t. Seba Fernández), Van Nistelrooy.

In panchina: Rubén, Duda, Buonanotte, Sergio Sánchez.

Gol: Negredo (S); Negredo (S); Cazorla (M).

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PRIMA GIORNATA: Zaragoza-Real Madrid 0-6

E meno male che José Mourinho è un catenacciaro incapace di dare un gioco offensivo alle proprie squadre… rassegniamoci, le etichette e i pregiudizi sono lì per restare, questo fa parte della loro stessa definizione, ma intanto l’appassionato che ragiona con la propria testa si gode questo Real Madrid, anche al netto di un avversario imbarazzante.

La partita del Madrid, il primo tempo nello specifico, è da manuale di come attaccare una difesa schierata, giocato con un intensità e un ritmo che già mettono agitazione nello spettatore, figuriamoci in chi se li trova di fronte. A questo proposito è interessante una prima (tutt’altro che definitiva, ovvio) valutazione della mossa di Coentrão centrocampista centrale, che a me per primo, lo confesso, lasciava perplesso. Coentrão centrale non è altro che un potenziamento di quel continuo scambio di posizioni che già l’anno scorso caratterizzava la trequarti merengue: al moto perpetuo di Özil e alle diagonali di Cristiano Ronaldo e Di María si aggiungono questi tagli dal centro verso l’esterno di Coentrão interessanti anche perché completano i movimenti “atipici” di Marcelo, oltre a liberare tutto lo spazio possibile a Xabi Alonso per impostare. Un Madrid illeggibile per l’avversario, esemplare l’azione del secondo gol, conclusa da Marcelo a centro area (!) dopo un’azione da un lato all’altro.

Resta da verificare l’inserimento di Coentrão in chiave difensiva: il 4-2-3-1 di Mourinho l’anno scorso soffriva molto nel ripiegare nella propria metacampo contro squadre capaci di gestire fasi di possesso prolungate (non il caso del Zaragoza oggi, evidentemente): il mancato rientro di Ronaldo spingeva Xabi Alonso verso sinistra, lasciando al solo Khedira il centro. L’inserimento di Coentrão sul centro-sinistra non può convincere di colpo Cristiano Ronaldo a sacrificarsi (ammesso che sia così e che Mourinho non gli chieda espressamente di non tornare), però aggiunge un giocatore con molta corsa, portato naturalmente allo spostamento laterale, e con questa capacità in grado di limitare certi squilibri, oltre che di mantenere Xabi Alonso nella posizione prediletta.

Fatti tutti gli elogi al Real Madrid, va rilevato come il destino del Zaragoza fosse già scritto nella sua formazione. Una squadra davvero indebolita rispetto a quella già non esaltante della scorsa stagione (in attesa di verificare l’inserimento del portoghese Ruben Micael, potenzialmente un acquisto-chiave): Aguirre parte con un 4-5-1 foltissimo, ma incapace nel trio centrale (Ponzio ancora ancora, ma Zuculini gira a vuoto e Abraham è un terzino-esterno riconvertito) di mettere in fila tre passaggi e dare un minimo di tempi d’uscita alla squadra in transizione offensiva. I primi minuti infatti sono d’apnea pura e semplice, e non puoi resistere schiacciato tutto dietro al Real Madrid. Incassato il secondo gol Aguirre cambia qualcosa, 4-2-3-1 con Lafita (l’unico che ci prova) spostato al centro della trequarti, ma i buoi sono scappati dalla stalla: nella ripresa il Madrid ha pure gli spazi per ripartire, e un gol tira l’altro.

I MIGLIORI: Tutti bene nel Madrid, ovviamente, ma menzione particolare per Özil, il fantasista moderno: non ha quel gusto del 10 classico, non “assapora” le giocate, in un lampo te lo trovi già nella zona calda. Meraviglioso nell’attaccare lo spazio e smarcarsi alle spalle del centrocampo avversario, innesca praticamente tutte le situazioni offensive più interessanti, anche più di Ronaldo e Di María, che si muovono negli spazi aperti dal tedesco. Se Özil è il fantasista moderno, Marcelo è il terzino-fantasista, con la sua interpretazione del ruolo assolutamente fuori dagli schemi ma sempre più inserita negli schemi, anzi una delle basi del sistema offensivo di Mourinho.

I PEGGIORI: Deludente l’ala destra messicana Barrera (arrivato a Saragozza col connazionale Efraín Juárez), sulla carta una delle poche operazioni azzeccate di una campagna acquisti che ha visto arrivare sin troppi canterani del Real Madrid e del Barça più di nome che di spessore (Abraham, Edu Oriol, Mateos, Juan Carlos).

Zaragoza (4-1-4-1): Roberto; Juárez, Fernando Meira, Da Silva, Paredes; Ponzio; Barrera (87’ Joel), Zuculini (52’ Edu Oriol), Abraham (52’ Pinter), Lafita; Uche.

Real Madrid (4-2-3-1): Casillas; Sergio Ramos, Pepe, Carvalho, Marcelo; X.Alonso, Coentrão; Di María (75’ Callejón), Özil (77’ Kaká), C. Ronaldo; Benzema (75’ Higuaín).

Gol: C. Ronaldo; Marcelo; Xabi Alonso; Cristiano Ronaldo; Kaká; C. Ronaldo.

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domenica, agosto 28, 2011

PRIMA GIORNATA: Granada-Betis 0-1: Rubén Castro 88'.

Comincia col piede giusto il Betis, ma dovrà comunque proporre qualcosa di più se vorrà dar credito a quelle previsioni più rosee che lo indicano come possibile squadra rivelazione della Liga 2001-2012 (previsioni alle quali Pepe Mel ha risposto senza falsa modestia: “e perché no?”).

Ci si aspettava di più da questo scontro fra neopromosse, onestamente bruttino. Povero di contenuti e personalità il Granada.

Pepe Mel lancia il poppante Vadillo (gli anni sono 16, non 17 come ho scritto in precedenza) sulla fascia destra, e per l’occasione rinuncia al consueto 4-4-2 asimmetrico per passare a una sorta di 4-2-3-1 che tende a diventare 4-3-3 per la propensione di Salva Sevilla, teorico trequartista, ad abbassarsi per dettare i tempi e per la posizione di Iriney e Beñat, che non si muovono mai sulla stessa linea in fase di possesso.

Dopo una fase iniziale in cui soffre l’entusiasmo del Granada e non trova il pallone, il Betis sembra prendere il controllo della gara, ma è un controllo alquanto sterile. Mancano gioco tra le linee e profondità: i due esterni, Jefferson Montero ma soprattutto Vadillo, non offrono quei tagli nel mezzo che, eseguiti puntualmente, assicurerebbero al Betis superiorità sul trio di centrocampisti centrali del Granada.

Manca quel rimescolamento di posizioni del miglior Betis, e così Iriney, Salva Sevilla e Beñat palleggiano orizzontalmente, senza colpo ferire. A questo aggiungiamo che l’unica punta è Rubén Castro, mobilissimo ma portato a svuotare l’area, e abbiamo un quadro completo del gioco un po’ piatto degli ospiti.

Ma se il fraseggio del Betis nelle zone interne è sterile, quello del Granada è inesistente. Davvero scolastica la proposta di Fabri: ripartenze, sovrapposizioni e cross al centro dell’area, generalmente con poche maglie biancorosse pronte alla conclusione. Tutto qui.

Rispetto alla scorsa stagione, il Granada ha perso un signor giocatore come Orellana, che dava quel po’ di elaborazione tra le linee, e lo ha rimpiazzato con Jaime Romero, mancino dal buon lancio che si è limitato a ricevere e cambiare gioco verso la fascia opposta, con Dani ”faccio-tutto-io” Benítez altrettanto improduttivo. L’unico “uuuyyyyyyy” per il pubblico di casa arriva da un calcio d’angolo incornato da Diego Mainz e sventato benissimo da Casto.

Nemmeno i cambi effettuati nell’intervallo (i due nuovi acquisti Carlos Martins e Yebda a fare compagnia a Mikel Rico, con Lucena retrocesso in difesa) hanno elevato il centrocampo dalle sue miserie, e la partita è andata sempre più dalla parte di un Betis pure non brillante. Mel toglie lo spaesato Vadillo per inserire Jorge Molina, e il pennellone qualcosa lo dà sempre, se non altro con quei movimenti fra i centrali, anche spalle alla porta, che regalano maggior spazio ai centrocampisti per le loro rotazioni e i loro inserimenti. Rimane un 4-3-3, con Rubén Castro a destra (perchè non seconda punta libera di svariare? Forse per tenere basso Siqueira?) ma con movimenti sicuramente più aggressivi. Il Betis si avvicina maggiormente al gol, anche se per realizzarlo ci vuole uno svarione di Lucena che apre la via al neo-entrato (al posto di Salva Sevilla) Jonathan Pereira, il quale assiste Rubén Castro per un comodo appoggio a porta vuota.

I MIGLIORI: ha trasmesso sicurezza la coppia di centrali del Betis, Mario-Dorado. Il primo molto deciso e rapido nell’anticipare (oltre che con un’elevazione notevole per la sua statura non eccezionale), il secondo sempre preciso, pulito e persino elegante nelle coperture e nel riavviare l’azione. Non è perfetto nel gioco di squadra, ma sono assolutamente degni di nota gli spunti palla al piede di Jefferson Montero, che in certi momenti, sfruttando soprattutto una maggior agilità nei primi metri, brucia persino quel treno di Nyom!

I PEGGIORI: Ighalo, come già capitato in alcune gare dei playoff, fa rimpiangere l’assenza del bomber Geijo. L’arsenale offensivo del Granada per questa stagione in Primera lascia più di un dubbio. Vadillo non ci capisce molto, si nota tutta l’inesperienza, sia senza palla che nelle scelte palla al piede. Si intravedono numeri interessanti (fisicamente direi che ricorda più il primo Cristiano Ronaldo, magro come un chiodo, che Joaquín), ma insomma dovrebbe essere ancora presto per lanciarlo in pianta stabile e per sacrificare il 4-4-2 asimmetrico, con un solo esterno di ruolo. Quell’unico esterno per ora non può che essere Montero, il ragazzino può comunque tornare utile a partita in corso.

Granada (4-1-4-1): Roberto; Nyom, Pamarot (1’ s.t. Carlos Martins), Diego Mainz, Siqueira; Lucena; Jaime Romero (21’ s.t. Mollo), Abel (1’s.t. Yebda), Mikel Rico, Dani Benítez; Ighalo.

Betis (4-2-3-1): Casto; Chica, Mario, Dorado, Nacho; Iriney, Beñat; Vadillo (6’ s.t. Jorge Molina), Salva Sevilla (41’ s.t. Jonathan Pereira), Montero (47’ s.t. Álex Martínez); Rubén Castro.

Gol: Rubén Castro 43’ s.t..

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sabato, agosto 27, 2011

Anche questa è andata (a loro).

Finora sono due su due. I meno importanti dei trofei importanti il Barcelona li ha vinti, anche se qualcosina ha lasciato a desiderare. Difficoltà simili alle due partite col Real Madrid, ma la minor qualità dell’avversario e l’episodio giusto (l’errore di Guarín che apre la strada del gol dell’1-0 a Messi, per il resto bravissimo nella finta a scartare il portiere, un gol che nella bellezza nascosta dietro l’apparente semplicità ha ricordato quello segnato la scorsa stagione all’Arsenal) hanno messo la strada in discesa.

Il Porto, passato da Vilas Boas a Vitor Pereira ma ancora con le idee molto chiare, schierato nel suo 4-1-4-1 replicava in un certo senso il Real Madrid dell’ultima finale di Copa del Rey, cioè baricentro alto ma non altissimo, e pressing feroce sui centrocampisti blaugrana una volta che ricevono dai difensori.

Il Barça non ci ha capito molto nella prima mezzora, perché così come in Supercoppa di Spagna la fase iniziale della sua manovra era pessima. Ancora una volta non convincono la difesa di rincalzo e Keita davanti alla difesa. Terrificanti Mascherano e Abidal (quest’ultimo talmente impacciato nella ripresa da rischiare un fallo da rigore che ci sarebbe stato tutto) nel portare palla e nel dare i primi passaggi, sempre incerto Keita nel trovare la posizione giusta per ricevere dai difensori. Il maliano da mezzala dimostra un senso tattico eccellente nel dare l’appoggio a chi porta palla, ma schierato in questo ruolo fatica a trovarsi e anche a coordinare i propri movimenti con quelli di Xavi: in molti momenti, quando Xavi retrocede per prendere palla, Keita rimane inchiodato lì, sulla stessa linea, non taglia verso uno spazio libero più avanti (come farebbe Busquets: anzi, è la cosa migliore che sa fare Busquets) e così (non) facendo non porta via avversari né apre spazi al compagno per vedere meglio il gioco. Di fatto, si nota una sorta di spaccatura fra Xavi e Keita alla base del centrocampo e Messi e Iniesta sulla trequarti che toglie continuità alla manovra blaugrana. Anche la catena di destra funziona male, con un Alves svagato che non sempre si colloca alla giusta altezza e quindi non aiuta la squadra a guadagnare metri in uscita dalla difesa, togliendo anche, davanti a lui, il riferimento a Pedro per muoversi senza palla.

Il Barça sopravvive grazie all'intelligenza di Iniesta, sempre magnifico nello smarcarsi in quegli spazi intermedi (un po’al centro un po’ defilato, un po’ trequarti un po’ no, che sfuggono anche al più sofisticato radar avversario: in questo caso sfrutta le pessime letture in fase difensiva del secondo me sopravvalutato Guarín) per poi tenere palla e dare respiro alla squadra, e alla capacità individuale di Messi, che quando entra in possesso del pallone fa quello che sappiamo tutti.

Il Porto comunque gioca meglio, e se magari non merita così decisamente il vantaggio di certo non merita di andare sotto. Il fatto di perdere palla “male” espone ancora di più le lacune di una difesa rimaneggiata dalle assenze di Piqué e Puyol: affiora lo scarso talento difensivo degli Adriano, Mascherano e Abidal, con l’esplosivo Hulk che vede una preda facile in Adriano e si avvicina al gol, prima che Guarín commetta la sciocchezza e Messi ipotechi il match.

Secondo tempo in discesa perché una volta passato in vantaggio il Barça per caratteristiche diventa praticamente irrimontabile, ma anche perché fa caldo, siamo a inizio stagione e la dispendiosa strategia del Porto cala ovviamente d’intensità. Il pressing comincia a farsi individuale, la palla non si riconquista più, e se non fosse per un gran destro da fuori di Guarín (e grande parata di Valdés) e il rigore non dato di cui sopra si darebbe la partita già per conclusa. La ciliegina è il gol di Cesc Fàbregas al termine di un bel contropiede condotto da Messi: nei primi minuti in maglia blaugrana Cesc ha già ampiamente ribadito la sua spiccata propensione all’inserimento, e una concezione del gioco più verticale di quella di Xavi e Iniesta che farà sicuramente comodo nel corso della stagione.

FOTO: marca.es

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giovedì, agosto 25, 2011

"Musho Beti", nonostante tutto.


Ley Concursal. Un nome, mille problemi. In Spagna le squadre con debiti verso i propri dipendenti o verso lo Stato (e che dichiarano di non poter garantirne il pagamento) possono fare ricorso a questa legge che, ponendole in amministrazione controllata, consente di rinegoziare il debito (con acquisti e cessioni subordinate alla soddisfazione dei creditori) assicurando al contempo la permanenza nella propria categoria, senza il castigo della retrocessione che invece figura in altri paesi. Negli ultimi anni 22 club sui 42 di Primera e Segunda son passati per la Ley Concursal, dato allucinante che dà la misura dell’insostenibile sistema finanziario del calcio spagnolo attuale, colosso dai piedi d’argilla o tigre di carta, usate un po’ la frase fatta che volete. L’ingiustizia intrinseca alla Ley Concursal risiede nell’indulgenza riservata ai club che “barano”, vantaggio competitivo ingiustificato rispetto a quelle società che invece si limitano a spendere ciò che incassano.

Questa è una delle motivazioni alla base del sacrosanto sciopero indetto dall’Associazione Calciatori spagnola: la garanzia della non-retrocessione incentiva il mancato rispetto dei contratti da parte dei club, e uno dei punti, assieme alla costituzione di un fondo di garanzia federale che tuteli i giocatori, è proprio la richiesta di una riforma della Ley Concursal, che il governo dovrebbe peraltro portare avanti.

Questa noiosissima premessa solo per chiarire il perché non trovate ancora alcun articolo sulle partite di Liga, e per introdurre un club che alla Ley Concursal sta facendo ricorso, cioè il Real Betis Balompié. Lasciando da parte le contortissime vicende societarie (vi basti sapere che nell’ultimo anno il tiranno De Lopera è stato finalmente abbattuto, e lo stadio ha riacquisito la denominazione “Benito Villamarín”), ci concentriamo sul gioco, e qui il Betis può dire molte cose interessanti anche al suo ritorno in Primera, viste le premesse poste nella scintillante passata stagione.



Altri giocatori. Portieri: Casto, Fabricio. Difensori: Isidoro (terzino destro), Antonio Amaya (centrale), Fernando Vega (terzino sinistro/centrale), Calahorro (centrale), Nelson (terzino destro) Miki Roqué (centrale). Centrocampisti: Cañas (centrale), Juanma (esterno/ala), Ezequiel (esterno/ala), Momo (esterno sinistro). Attaccanti: Jonathan Pereira (seconda punta/esterno).


La Segunda negli ultimi anni ci sta abituando a un cambio di modello: come tutte le categorie inferiori, tecnicamente più povere, lo stereotipo vuole che le giocate siano meno pulite e quindi le partite più spezzettate, con conseguente predominio della tattica e degli episodi, magari da palla ferma. Stereotipo in alcuni casi ancora valido, ma tuttavia smentito da squadre che anche in Segunda cercano di proporre un calcio più complesso, più elaborato e organizzato a partire dal possesso-palla, esattamente come avviene ai piani altissimi del Barcelona e della nazionale spagnola.

A questo proposito, in passato analizzammo il Cartagena, che però non ha coronato con la promozione il suo “tiqui-taca” (vedremo ora così combinerà al Levante Juan Ignacio Martínez, con giocatori sulla carta meno adatti); col Betis invece parliamo della massima espressione, una squadra capace la scorsa stagione non solo di dominare la Segunda, ma rivelazione anche in Copa del Rey, con annessa lezione di calcio a domicilio al Getafe e doppia sfida con il Barça giocata da pari a pari. Certo,mi prenderete per scemo se parlo così di una gara finita 5-0, ma nessuna squadra l’anno scorso ha fatto soffrire il Barça al Camp Nou come il Betis in quel primo tempo. Con la sua stessa medicina, contendendo ai blaugrana il possesso del pallone e pressandoli alto. La vittoria 3-1 al ritorno, pure inutile ai fini della qualificazione, ha rappresentato la ciliegina sulla torta. Vedere maglie blaugrana correre dietro al pallone non è una cosa di tutti i giorni.

Ci sono dubbi su come questo Betis possa concretizzare in termini di gol fatti e subiti, ma certo è che Pepe Mel ha costruito una squadra in grado di fare sempre comunque la partita.

Prima delle considerazioni sul modulo, che può variare, sono due i concetti fondamentali (alla base anche della Spagna, con il centrocampo foltissimo e i falsi esterni) che danno forma al sistema di gioco del Betis:

1) Densità nella zona della palla;

2) Pochi punti di riferimento, poche posizioni fisse, occupare gli spazi in corsa, mai presidiarli staticamente.


Il triangolo di centrocampo

Questa filosofia di gioco ha il suo nucleo operativo più forte nel trio di centrocampo del 4-4-2 (o 4-4-1-1) asimmetrico di Mel. Iriney e Beñat al centro, Salva Sevilla (esterno più falso di Giuda, a destra più spesso che a sinistra) gestiscono la maggior parte dei palloni e dettano i ritmi.

Ma ovviamente la manovra per essere fluida deve partire “pulita” sin dalla difesa: il Betis inizia nel 99% dei casi palla a terra (anche sui rinvii dal fondo), con i terzini che partono alti e i due centrali ben larghi per aggirare il pressing avversario. Spesso si aggiunge fra i due centrali uno dei due mediani (Beñat scala più spesso di Iriney), componendo la pseudo-difesa a tre diventata un tormentone da quando Guardiola ha cercato di copiarla da La Volpe, peraltro senza successo.

Un meccanismo tattico che sta diventando quasi una moda, ma che per essere applicato ha comunque bisogno delle caratteristiche giuste, perché altrimenti il rischio è che tre giocatori dietro si passino il pallone senza guadagnare un metro, costringendo i loro compagni a retrocedere e facilitando il pressing avversario, vedi il caso del Valencia che questa roba qua la fa malissimo.

Nel caso del Betis invece il giochino funziona: i verdiblancos più che subire il pressing sembrano chiamarlo per poi sfruttare gli spazi scoperti dall’avversario, che si trova preso da una sorta di dilemma tattico: più alza il pressing più rischia di allungare i propri reparti, costringendo la difesa ad alzarsi troppo, a costo di lasciare scoperti alcuni spazi intermedi delicatissimi. Questi spazi il Betis li sa sfruttare, o con i due terzini alti (se agli avversari non bastano due attaccanti per pressare i due difensori centrali+Beñat, sarà l’esterno più vicino a dover aiutare in pressing, ma così il terzino del Betis su quel lato resta smarcato) oppure con i centrocampisti esterni che tagliano verso il centro fornendo un’opzione di passaggio in più e così bloccando i due mediani avversari, che se avanzano per pressare Beñat rischiano di scoprire altri pericolosissimi spazi intermedi.

Più comodo riassumere queste situazioni nel grafico che trovate sotto: si ipotizza che il Betis stia facendo girare palla verso il proprio lato sinistro, in rosso sono gli avversari schierati con un 4-4-2, le freccette indicano i rispettivi movimenti nel corso dell'azione, mentre i punti interrogativi gialli segnalano le zone intermedie che l'avversario può lasciare scoperte.

Il terzino destro rosso chi prende: Montero oppure Nacho? E Rubén Castro che potrebbe tagliare alle sue spalle? E con le due punte del Betis che pareggiano i difensori centrali+Iriney e Salva Sevilla che pareggiano i due centrocampisti centrali, chi copre lo spazio tra le linee? La difesa avversaria allora dovrà accorciare, ma così diventerebbe ancora più vulnerabile nel caso il Betis facesse filtrare un pallone...


Il parco-centrali è un po’ un’incognita. L’unica certezza rispetto alla scorsa stagione è il mancino Dorado, il leader del reparto, giocatore dal buon senso della posizione, con una certa eleganza e discreta qualità nell’avviare l’azione. Un profilo che calza benone con quello che è lo stile di gioco richiesto. L’altro centrale, il destro, è un’incertezza sia perché si tratta di nuovi acquisti (gli inquilini dello scorso anno sono out per motivi ben diversi: il mitico Belenguer per vecchiaia conclamata si trova senza squadra, il giovane e sfortunatissimo Miki Roqué lotta contro un tumore maligno) sia per le caratteristiche, nonostante l’esperienza dei due due innesti, Mario dal Getafe e Ustaritz dall’Athletic: centrali di rendimento ma tecnicamente non eccezionali, più con caratteristiche da marcatore. Completa la lista dei centrali un altro nuovo innesto, Antonio Amaya (ma Pepe Mel lo conosce dai tempi in cui allenava il Rayo Vallecano), con possibilità anche per il canterano Calahorro.

Passato il pallone dalla difesa, entra in gioco il triangolo: Beñat e Iriney mai sulla stessa linea perché si alternano come detto fra l’appoggio ai difensori e il centrocampo, e poi Salva Sevilla, che quasi mai partecipa all’inizio della manovra ma che una volta passato il cerchio di centrocampo diventa il vero regista della squadra.

Un Lord il buon Salva: non si scompone, non si spettina, mai un gesto brusco, uno strappo, un’accelerazione rabbiosa. A lui basta smarcarsi per ricevere, alzare la testa, valutare le opzioni, temporeggiare se del caso (la pausa!) recapitare la palla nel punto preciso. Elegante, intelligentissimo nelle scelte, tocco limpido che fa valere anche sui calci piazzati oltre che nelle rifiniture. Può partire da esterno indifferentemente a destra o a sinistra, tanto viene sempre al centro a prendere palla, da centrale nel doble pivote o da trequartista. Quest’ultima opzione la meno consigliabile, avanzarlo troppo lo allontana dalla costruzione della manovra, che è il suo pane molto più dello spunto nell’ultimo quarto di campo. Certo non è veloce, ma è molto continuo e pure disciplinato nei ripiegamenti difensivi. Sorprendente che a 27 anni, dopo una trafila fra Poli Ejido, Sevilla Atlético (ahi ahi ahi) e UD Salamanca, questa sia la sua prima esperienza in Primera.

Altro giocatore-chiave per gli equilibri è Iriney, vecchia conoscenza degli appassionati di Liga sin dai tempi del Celta. Gioca sempre corto, molto semplice il brasiliano, ma sa leggere benissimo lo spazio in cui situarsi in tutte le fasi del gioco, come appoggio in fase offensiva e come diga in quella di non possesso.Dei tre è sicuramente quello con le maggiori qualità difensive, grintoso e reattivo nel primo pressing ma anche accorto nel temporeggiare e coprire lo spazio davanti alla retroguardia.

Dei tre il basco Beñat (made in Lezama, cantera Athletic) è forse quello con meno qualità, meno senso del gioco e meno geometrie, ma è comunque importante per il dinamismo e la grande mole di lavoro. È quello che copre più campo: lo vediamo un attimo prima fra i difensori ad inizio azione, e qualche secondo dopo nella metacampo avversaria, generalmente con più licenze offensive rispetto ad Iriney. Beñat ha un buon destro, e non di rado ci prova dalla lunga distanza.

Dovrebbe presumibilmente competere per una maglia con Beñat il nuovo arrivato Matilla, che potrebbe rivelarsi un colpaccio (e un tremendo errore da parte del Villarreal che lo ha lasciato andare via a titolo definitivo). Ventitre anni, già lo abbiamo segnalato come una grande promessa, il centrocampista emergente che forse più di tutti ricorda Xavi. Posizione in campo e funzioni sono simili (non parte proprio davanti alla difesa, ma qualche metro più avanti, tiene palla la smista detta i tempi e lega i reparti), ma la cosa che colpisce di più sono le movenze simili al campione blaugrana, in particolare la celeberrima giravolta su se stesso, mettendo il corpo fra l’avversario e il pallone, uno stratagemma per non perdere mai palla (e qualche volta saltare pure l’uomo) pur non avendo il dribbling secco nelle corde.

Per qualità, alla lunga dovrebbe passare davanti a Beñat, ma va verificata la sua consistenza (anche difensiva), e inoltre pare che Mel non sia contentissimo di quanto il ragazzo ha mostrato in pretemporada.

Molto movimento, ma quanti gol?

Il giocatore che in attacco simboleggia questa manovra senza punti di riferimento è Rubén Castro, devastante l’anno scorso con 27 gol in 42 partite di Segunda. Fondamentale il suo movimento sul fronte offensivo, in particolare i tagli dal centro verso l’esterno che, portando via i difensori avversari, creano situazioni di incertezza e superiorità numerica e aprono spazi ai tagli e agli inserimenti dal centrocampo. L’apriscatole dell’attacco verdiblanco oltre che il massimo goleador questo piccoletto (1,70) rapido e reattivo sul breve, tecnico e col gusto per la giocata fantasiosa ed elegante tipico della scuola canaria. In Segunda ha segnato gol magnifici per freddezza e classe, ma il problema è che a 30 anni nella sua carriera ha sempre e immancabilmente fatto scena muta una volta messo alla prova in Primera: cominciò col botto all’esordio nel Las Palmas, una doppietta nel 4-2 casalingo al Real Madrid Galáctico (quello vero, della stagione 2001-2002), ma le successive esperienze nella massima serie (fra Albacete, Nàstic e Deportivo, che lo ha sempre mandato in giro come un pacco postale) son state balbettanti, per usare un eufemismo. Pepe Mel però lo ha avuto anche al Rayo, e si fida ciecamente di lui.


L’altro attaccante è l’ariete (1,89) Jorge Molina, centravanti classico che lavora sui due centrali, cerca la profondità e si fa sentire in area, buoni movimenti e discrete doti di finalizzatore, ma anche un po’ macchinoso. Jorge Molina è un’altra totale incognita a livello di Primera: a 28 anni non ci ha mai giocato, e i gol fatti (tanti comunque, 22 la scorsa stagione e 27 nel 2009-2010 con l’Elche, capocannoniere della categoria) son sempre stati in categorie inferiori.

Oltre a questo discorso, l’attacco preoccupa per i pochi effettivi: l’unica altra opzione disponibile al momento è Jonathan Pereira, vivacissima seconda punta (spesso però troppo frenetico e confusionario nelle azioni, oltre che peso-piuma portato a perdere praticamente ogni contrasto) o esterno, non certo l’alternativa d’area a Jorge Molina che servirebbe. La società sta cercando sul mercato, nei limiti della Ley Concursal: fortunatamente sfumato Zigic (per caratteristiche, il cestista serbo avrebbe rappresentato un sasso, anzi un macigno nell’ingranaggio del tiqui-taca di Pepe Mel), si prova col Manchester City per Santa Cruz.

Un bel colpo alla credibilità offensiva del Betis lo ha dato poi la cessione di Emana (obbligata, perché il tizio voleva andarsene e i 4,5 milioni dell’Al Hilal non fanno propriamente schifo a un club in amministrazione controllata). Il camerunese è un giocatore discontinuo, talvolta indolente, per certi versi sgrammaticato perché non rispetta le consegne tattiche e i canoni di quello che si deve fare con il pallone tra i piedi in un dato momento, ma era anche l’unico giocatore capace di fare la differenza col cambio di ritmo. Il titic-titoc di Salva Sevilla, Iriney e Beñat è ammaliante, i tre potrebbero tranquillamente scrivere un manuale di geometria, però una volta arrivati sulla trequarti bisogna graffiare, e il Betis visto in questo precampionato in tal senso ha un po’ preoccupato. Prendiamo l’amichevole con la Juventus: chiaro predominio, tappeti rossi fino al limite dell’area avversaria, ma una volta arrivati lì il blackout.

Senza Emana il Betis perde la sua scheggia impazzita, perde imprevedibilità e gol, e anche qualche possibilità tattica: l’anno scorso poteva variare fra una e due punte, mentre ora come ora sembra obbligato l’attacco con Jorge Molina e Rubén Castro più un esterno molto offensivo, praticamente un’ala, a supporto.

Eccolo, il 4-4-2 asimmetrico di Mel: a centrocampo, un solo uomo deve dare ampiezza. Il prescelto è il 22enne ecuadoriano Jefferson Montero, forse il miglior acquisto (il Villarreal questo però lo ha dato solo in prestito). Grande talento, personalmente mi ricorda Nani, sia per il modo di accelerare e fintare che per l’agilità da primate (senza nessuna offesa). Molto abile anche nello stretto, sempre pronto a giocarsi l’uno contro uno ma senza comunque giocare solo per conto suo. Non può coprire l’assenza di Emana, però può surrogarne in parte l’esplosività.

Con l’arrivo di Jefferson Montero, più difficile che veda il campo Ezequiel Calvente, segnalato come bambino prodigio della cantera l’anno scorso ma che rischia persino (non aver fatto la preparazione col club per disputare il mondiale Under 20 non lo aiuta) di subire la concorrenza di altri canterani emergenti, in particolare Sergio Rodríguez (esterno-trequartista) e Vadillo (esterno di 17 anni paragonato a Joaquín, anche se per ora ho potuto solo vedere in fotografia un’improponibile cresta alla Neymar), i quali raccolgono elogi su elogi da chi li ha visti giocare.

Forse troppi esterni per una maglia sola, considerando che c’è anche il veterano Juanma: molto verticale, ha sempre garantito un buon rendimento nelle sue esperienze di Primera, al Levante come al Betis. Preferisce però giocare a destra, quindi nel caso di un suo impiego Salva Sevilla passerebbe a sinistra, anche se Mel valuta pure l’alternativa del 4-3-3 con due ali pure.

Meglio comunque un solo esterno di ruolo, per mantenere la mancanza di punti di riferimento dell’attacco e i fitti scambi del triangolo di centrocampo. Perciò è fondamentale che sulla fascia “monca”, in assenza di esterni sia il terzino a dare profondità. Qui un altro potenziale problema: il terzino più offensivo disponibile è infatti il mancino Nacho (ex centrocampista, con capacità per rilanciare il gioco e uscire in dribbling dalla pressione avversaria), ma Nacho davanti a sé ha Montero, e quindi meno spazi per attaccare. Servirebbe un Nacho a destra, ma né il nuovo acquisto Chica (soldatino di scuola Espanyol utilizzabile anche a sinistra) né Isidoro hanno queste caratteristiche. Le aveva Miguel Lopes la scorsa stagione, che infatti il Betis cerca di riottenere in prestito dal Porto, e le potrebbe avere Nelson, che però deve ancora riprendersi dal grave infortunio occorsogli nella (non malvagia) stagione trascorsa in prestito all’Osasuna.

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mercoledì, agosto 17, 2011

Delusione Under 20.

Proprio nella partita giocata meglio, il quarto contro il Brasile, l’Under 20 esce ai rigori. Verdetto forse ingiusto (la Spagna è parsa superiore), ma che non nasconde la delusione che, tutto sommato, lascia il rendimento offerto dalla selezione di Lopetegui. Ci si aspettava di più, molto di più, da una Under 20 che aveva come modelli l’Under 19 dello scorso europeo (arrivata seconda, ma con la nazionale giovanile spagnola più forte che abbia mai visto, e di gran lunga) e anche quella della fase élite dell’Europeo Under 19 di quest’anno (cioè il girone eliminatorio precedente la fase finale vera e propria, vinta un paio di settimane fa da Sarabia, Morata e Deulofeu), che ha fornito a questa Under 20 i suoi migliori elementi, Isco, Koke e Sergi Roberto.

È stata una Spagna che rispetto a quei modelli non ha offerto la stessa continuità di gioco. Brutta nell’esordio contro la Costa Rica (nonostante il 4-1 finale), così così con l’Ecuador (vittoria 2-0), ha concluso il girone a punteggio pieno (allenamento contro l’Australia per le seconde linee: 5-1) ma senza mai convincere, avvisaglia del soffertissimo ottavo contro una Corea del Sud meglio organizzata oltre che tremendamente dinamica, battuta solo ai rigori.

I rigori segnano il capolinea invece contro un Brasile che pur essendo stato dominato passa in vantaggio nel primo tempo, sfruttando l’abilità dei suoi giocatori offensivi che in azioni isolate creano non pochi imbarazzi ai difensori spagnoli (soprattutto il fianco sinistro: il centrale Amat e ancora di più il terzino Planas, parso inadeguato). Gara più equilibrata a partire dalla ripresa (con cambio tattico del Brasile: difesa a tre dopo l’arretramento di Casemiro), un botta e risposta con le squadre sempre più lunghe e spazi per i solisti (Isco da una parte e il subentrato Dudu dall’altra), fino all’epilogo.

FORMAZIONE-TIPO (4-2-3-1, o 4-3-3)

------------Fernando Pacheco--------

H. Mallo---Bartra----Amat-----Luna

(Pulido)-(Planas)

-----------Oriol Romeu---Koke---------

Tello------------Canales------------Isco

------------------Rodrigo------------------

(A.Vázquez)

Se la Spagna Under 20 non ha offerto il gioco atteso è perché in parte è stata snaturata. Continuando col paragone con le Under 19, sia quella dell’anno scorso che quella dell’ultima fase élite erano accomunate da un aspetto, pure nella diversità dei moduli: la grande quantità di opzioni di passaggio nella fascia centrale del campo. Chi portava palla aveva sempre due-tre alternative, centrocampisti che giocavano ravvicinati ma senza mai pestarsi i piedi, anzi scambiandosi continuamente le posizioni senza muoversi sulla stessa linea, causando una certa difficoltà di lettura al sistema difensivo avversario. Il resto, anzi la parte più importante, lo facevano giocatori che parlavano la stessa lingua, coi tempi, la visione di gioco e i movimenti che si completavano.

Nell’Under 19 del 2010, allenata da Milla, c’era un teorico doble pivote con Oriol Romeu e Thiago Alcantara, con Romeu più ancorato davanti alla difesa e Thiago più libero. Poi c’era Canales al centro della trequarti nel 4-2-3-1, e infine Dani Pacheco che da sinistra tagliava tra le linee ed era come un rifinitore in più. Questo quartetto prendeva nel mezzo il centrocampo avversario, attirandolo e liberando anche spazi per i cambi di gioco e gli inserimenti a sorpresa degli esterni.

L’Under 19 della fase élite di questo giugno invece, già sotto la guida di Lopetegui, giocava di norma con un 4-3-3 (e giocava molto meglio di quella che poi ha vinto l’Europeo): Koke davanti alla difesa, Rubén Pardo e Sergi Roberto mezzeali, e poi Isco a fare il falso attaccante o il trequartista vero e proprio (in questo caso si passava a un 4-2-3-1 vero e proprio). Rotazioni continue fra i centrocampisti, fluidità di manovra, ripartizione corretta degli spazi, equilibrio, spettacolo.

Con questo mondiale Under 20 tutto ciò è venuto meno: Lopetegui è partito con un 4-3-3 con Oriol Romeu davanti alla difesa, Koke e Sergi Roberto mezzeali, e attacco da destra a sinistra con Pacheco, Rodrigo e Isco, ma poi è passato al 4-2-3-1. Un errore di base la composizione del doble pivote: sia Oriol Romeu che Koke, pur con caratteristiche diverse (più “stopper” Romeu, più “playmaker” Koke) sono giocatori che amano partire davanti alla difesa, dietro la linea della palla. Koke, nonostante la versatilità e l’intelligenza tattica che sta dimostrando rimane un regista basso. Qui invece doveva muoversi oltre la linea della palla, davanti a Romeu, anche spalle alla porta: cosa poco comprensibile quando nella stessa rosa Lopetegui disponeva di Sergi Roberto, prima titolare e poi accantonato, il più bravo a interpretare proprio questi movimenti.

A questa prima frattura all’interno del modello di gioco si è aggiunta la cattiva salute della trequarti: prima per colpa di Pacheco, delizioso l’anno scorso irritante questa volta, che da sinistra non ha mai rappresentato una soluzione utile alla manovra, anzi ha finito col risultare un corpo estraneo. Qui la colpa non è di Lopetegui, ma qualche responsabilità il CT l’ha avuta nell’insistere su Tello, addirittura fino a relegare in panchina Isco nella partita con la Corea del Sud.

Tello, canterano del Barça, è un giocatore che a fronte di alcune buone qualità individuali (accelerazione e progressione potente, gioco praticamente ambidestro come Pedro) offre una profondità tattica pressoché inesistente. Lui ti fa la fascia, ti offre un riferimento sicuro per allargare il gioco, arriva anche sul fondo, ma di contribuire alla manovra in altro modo non se ne parla.

Alla fine sono tre opzioni di passaggio in meno: due (Koke “snaturato” e Tello) per scelta del tecnico, una (Pacheco) per “autoesclusione”. Il peggio si è visto nell’ottavo con la Corea del Sud, dove a centrocampo le maglie rosse erano sempre in superiorità: situazione pure aggravata quando nel secondo tempo Oriol Romeu è retrocesso fra i due difensori centrali per iniziare l’azione. Non si sa bene perché, visto che il problema non era l’inizio ma il proseguimento dell’azione, ed è capitato di vedere distanze abissali fra i difensori spagnoli e il centrocampista più vicino.

Lopetegui ha rettificato con successo nel quarto col Brasile: fuori Pacheco, Tello sempre in campo, ma almeno Isco e Canales insieme. Il primo centrale, il secondo falso esterno destro, ma comunque sempre molto vicini, un quadrilatero chiuso da Oriol Romeu e Koke che regalava una costante superiorità rispetto al centrocampo e al sistema difensivo brasiliano, sempre sbilanciato verso un lato ed esposto al cambio di gioco che liberava ora Tello/Planas a sinistra ora Rodrigo (incline a svariare)/Hugo Mallo sulla destra.

Nella ripresa, un cambio non necessario: Sergi Roberto per Tello. Non che Tello non stesse giocando male, ma l’ingresso di Sergi Roberto, in una posizione sin troppo avanzata (trequartista) ha finito col diminuire gli sfoghi esterni e appiattire il centrocampo: Koke, già abbastanza a mal partito nel ruolo ritagliatogli da Lopetegui, si è visto “tappare” lo spazio davanti, finendo a giocare schiacciato sulla stessa linea di Oriol Romeu. Cosa che ha appesantito l’azione di un centrocampo alla fine un po’ingolfato dalla presenza di tanti giocatori accentrati portati a venire incontro e chiedere palla sul piede. Meno sorpresa sugli esterni, anche se i due gol paradossalmente sono arrivati proprio dai cross dei due terzini, Hugo Mallo sul primo e Planas sul secondo.

Va certamente detto che le considerazioni tattiche pesano relativamente su una gara che a secondo tempo inoltrato ha visto prevalere la stanchezza e le individualità, ma resta il fatto in tutto il mondiale la Spagna non è mai riuscita a proporre un undici e una linea coerente che esaltasse le capacità di palleggio (il “fútbol asociativo”, secondo un’efficacissima espressione del gergo spagnolo: passarsi il pallone non tanto per passarselo, ma per “creare società”, tanti piccoli triangoli che facciano avanzare la squadra) di cui abbondava l’organico. Un vero peccato.

Passando ai singoli, un calo rispetto alle citate Under 19 lo si è riscontrato nei terzini: l’anno scorso c’era Montoya a destra, nella fase élite invece uno sfavillante Muniesa “alla Marcelo” sulla sinistra (ma poi il blaugrana si è infortunato e ha dovuto rinunciare al mondiale). In questo caso invece due adepti del “compitino”: a destra Hugo Mallo, per quanto positivo contro il Brasile, non spicca per qualità tecniche ed ha come massimo pregio la regolarità di rendimento e una discreta completezza; a sinistra invece Antonio Luna del Sevilla ha qualche lacuna in più nel piazzamento difensivo ma pure più propensione offensiva, facilità di corsa e discreto cross, anche se non va oltre l’azione standard del “sovrapposizione+traversone”. Nella partita col Brasile al posto di Luna ha giocato Planas: tecnicamente modesto non solo in fase offensiva, viene da pensare che se non fosse del Barça probabilmente non verrebbe convocato.

A tutti e tre i terzini manca la capacità di sostenere da soli il gioco offensivo sulle fasce, e magari anche per questo Lopetegui ha optato per un’ala come Tello limitando il gioco per linee interne dei suoi migliori palleggiatori. Chissà, una soluzione poteva essere quel Kiko Femenía che, ala d’origine, già nell’Hércules (ora è stato acquistato dal Barça Atlètic) era stato adattato a terzino: un Kiko terzino, in una posizione di partenza molto avanzata (come fa qualche volta Guardiola con Alves) avrebbe potuto tenere la fascia e lasciare più spazio al centro per i palleggiatori.

Al centro della difesa detta legge Marc Bartra: la mia percezione del giocatore catalano ha seguito man mano che l’ho visto giocare questa scala: da “interessante” a “promettente”, poi “forte”, “fortissimo” e infine “supertalento”. Credo sia questa l’etichetta giusta. È evidente che studia da Piqué: personalità impressionante e grande intuizione negli anticipi, tempismo nelle coperture, regale autorevolezza nelle uscite palla al piede, “provocando” i centrocampisti avversari per liberare spazi ai propri compagni. Rispetto al modello Piqué minore è la prestanza fisica, ma superiore l’agilità e la rapidità sul breve. Insomma, fategli largo che arriva.

Catalano anche l’altro centrale, l’espanyolista Jordi Amat, puntuale, con un buon senso della posizione e anche un discreto primo passaggio, ma certo senza la preveggenza e la leadership di Bartra. Poi cede qualche metro sul gioco aereo. Amat che ha scalzato il titolare dell’Europeo Under 19 dell’anno scorso, ovvero Pulido. Gerarchie ribaltate anche fra i pali, dove il teorico terzo portiere, il madridista Fernando Pacheco, è finito titolare dopo l’infortunio occorso al titolare Aitor, dell’Athletic Bilbao.

A centrocampo la scelta era tale che ha finito per imbarazzare Lopetegui. Intoccabile Oriol Romeu davanti alla difesa, e si capisce il perché. L’ormai ex blaugrana (passato al Chelsea, ma il Barça ha un’opzione di riacquisto) è una diga intelligente davanti alla difesa, non uno messo lì perché è grosso e “ruba palloni” (che non vuol dire niente), ma per dare equilibrio in tutte le fasi. Prestante senza essere macchinoso, con una buona lettura del gioco in transizione difensiva, semplice ma funzionale nella fase di possesso.

Koke come detto è una sorta di doppione di Romeu per quanto riguarda la zona di campo prediletta, ma il suo gioco è diverso, è più un organizzatore della manovra, non particolarmente creativo ma molto geometrico, con un bel destro sia nei cambi di gioco che nella conclusioni dalla distanza. Posto che non ci si dimentichi qual è il suo ruolo principale, questi spostamenti stanno comunque arricchendo la sua cultura tattica: Lopetegui lo ha fatto giocare in pratica da mezzala, Quique all’Atlético addirittura da falso esterno, tagliando dentro per ricevere tra le linee o per inserirsi in area avversaria, peraltro con un certo tempismo. Però è certo che quest’anno deve essere lui il regista basso dell’Atlético Madrid, nel doble pivote con Tiago: niente Gabi e niente Assunção, per favore.

Sergi Roberto è stato poco valorizzato da Lopetegui, che disponeva della mezzala potenzialmente più completa. È uno strano animale questo, somiglia un po’ a tutti e un po’ a nessuno. Ha la capacità di saltare il centrocampo avversario palla al piede, ma non c’entra niente con Iniesta; il fisico e la potenza in progressione semmai ricordano più Javi Martínez, ma è un giocatore completamente diverso; è decisamente più geometrico del bilbaino, ma c’entra con Xavi e Fabregas ancora meno di quanto c’entri con gli altri. Muovendosi senza palla ha una grande capacità di influire sul gioco, in una fetta di campo enorme, partendo dall’appoggio alla fase iniziale della manovra sino agli inserimenti in area avversaria.

Bravissimo nell’effettuare il “movimento Keita”, ovvero attaccare lo spazio fra centrale e terzino avversario, portando via quest’ultimo per liberare all’uno contro uno, sul cambio di gioco dal lato opposto, il compagno che gioca sulla sua stessa fascia. È un giocatore perfettamente funzionale alla filosofia di gioco del Barça, ma al tempo stesso atipico, non la classica mezzala o “numero 4” che detta i tempi e ama stare in frequente contatto con il pallone. È un giocatore di movimento perfetto per dare continuità all’azione più che guidarla. Può partire anche davanti alla difesa, comunque meglio in un centrocampo a tre centrali, con ampia libertà di movimento, con un po’ di copertura alle spalle.

Altra mezzala “di continuità” è Recio, spesso inserito a partita in corso da Lopetegui, lanciato da Pellegrini al Málaga in quest’ultima stagione (ora però con l’arrivo del magnifico Toulalan lo spazio per lui sarà pochissimo); continuità ma sicuramente con una minor completezza di Sergi Roberto, in una fascia di campo più ridotta e più limitato al palleggio. Comunque anche lui come Sergi sicuramente più adatto a muoversi davanti a Oriol Romeu rispetto a Koke.

Sulla trequarti, si sarebbe potuto vedere un Isco migliore (molto sottotono il girone), ma lo spezzone contro la Corea e il quarto col Brasile sono stati comunque all’altezza dell’emergente e meritata fama del nuovo acquisto del Málaga. Gli si può perdonare una certa mancanza di esplosività (non dribbla mai in velocità, ma sempre rallentando, cambiando direzione e prendendo in controtempo l’avversario, approfittando delle gambe corte corte, quasi le zampe di un bassotto) e un fisico resistibile nei contrasti, perché questo ha tutta l’aria di un genio, uno che vede calcio prima e meglio degli altri. Se Sergi Roberto influenza la manovra a tuttocampo col movimento senza palla, Isco fa lo stesso CON il pallone. È una mezza punta portata ad abbassare anche molto la propria posizione, per essere sempre nel vivo dell’azione del centrocampo più che limitarsi a smarcarsi tra le linee e rifinire e dare l’ultimo passaggio. Rispetto al compagno Canales, ha meno corsa, meno gol, meno versatilità tattica ma più magia, più capacità di inventare la giocata dal nulla e anche un certo gusto per l’ornamento (dribbling nello stretto controllando con la suola, piroette etc…) che lo rende un po’più “sudamericano” rispetto ai suoi omologhi spagnoli. Resta però spagnolissimo nel preferire al dribbling la triangolazione, che in fondo è il modo migliore di saltare l’uomo.

Il neo-valenciano Canales cerca di riprendere il discorso interrotto prima di passare al Real Madrid e perdere praticamente un anno. Rimane un giocatore di grande classe, capace di fare tantissime cose, dal regista davanti alla difesa (spesso contro l’Australia a iniziare l’azione era lui e non Recio, il teorico “pivote”) fino al trequartista-incursore (con un fiuto del gol e un tempismo che ha spinto qualcuno a paragonarlo a Julen Guerrero), anche se incasellarlo in una posizione troppo avanzata può anche limitarne l’apporto al gioco. Se di Isco ti stregano l’eleganza e la magia, di Canales ti conquista l’essenzialità. Un numero 10 che quasi non dribbla, ma dal gioco eccezionalmente profondo. Speriamo trovi fiducia e una collocazione stabile: se al Madrid era chiusissimo, al Valencia potrebbe trovare comunque le sue brave difficoltà.

Di Tello abbiamo già detto: giocatore dalle buone qualità atletiche e tecniche, ma troppo lineare. Eccessivo lo spazio riservatogli, così come forse troppo pochi son stati i minuti dati a Ezequiel Calvente, l’estroso piccoletto del Betis, che perde qualche punto rispetto a Tello sul piano fisico, ma che oltre ad avere più imprevedibilità palla al piede ha anche un po’ più di gioco interno, pur rimanendo un’ala.

Più gioco interno di tutti gli uomini di fascia lo ha Dani Pacheco, forse la delusione maggiore di tutto la spedizione. Nell’Europeo dello scorso anno aveva incantato: un attaccante di manovra tecnicissimo, dal senso del gioco notevole, fiuto e rapidità d’esecuzione, ideale probabilmente come seconda punta ancora più che come esterno. Il Pacheco visto in Colombia invece somigliava a un fantasma: estraneo alla manovra, e incapace anche di incidere individualmente, perché pur essendo tecnicamente molto dotato gli manca il cambio di ritmo per lasciare sul posto l’avversario nell’uno contro uno, e soffre i contrasti.

L’attacco ha vissuto sul dualismo fra il brasiliano naturalizzato Rodrigo Moreno e l’espanyolista Álvaro Vázquez per l’unica maglia disponibile (solo nei supplementari con la Corea del Sud i due hanno giocato insieme). I due hanno fatto il loro, pur senza essere fenomeni. Nonostante i 5 gol di Vázquez (3 comunque nell’allenamento con l’Australia) contro i 3 di Rodrigo, la titolarità del secondo non è stata un’usurpazione. Non è il tipo di giocatore che mi esalti personalmente, trovo un pugno in un occhio le sue finalizzazioni davanti al portiere (totale mancanza di freddezza e conclusioni esclusivamente di potenza col suo sinistro), però si è rivelato di una certa utilità e anzi la sua prestazione col Brasile non si può che definire formidabile, senza mezzi termini.

Ha retto l’attacco da solo dando immancabilmente uno sfogo ai centrocampisti, che fosse facendo da boa, allungando la difesa avversaria con uno scatto in profondità o anche allargandosi a destra per offrire un riferimento prezioso in ampiezza. È indubbiamente uno che lavora tanto sulle difese avversarie, e insomma, scuotendo così tanto l’albero qualche frutto può sempre cadere per i compagni. Non è casuale che, al di là di errori anche grossolani che le hanno favorite, un gol contro la Costa Rica e altre occasioni avute durante il torneo siano nate da palle rubate ai difensori avversari, frutto della caparbietà e dell’esuberanza tipiche del suo calcio.

Come finalizzatore, Álvaro Vázquez fa dieci a zero a Rodrigo: a tu per tu col portiere aspetta fino all’ultimo, se può finta e lo mette a sedere, o magari dà il colpo sotto, di certo non gliela tira addosso. In area piccola poi si fa sempre trovare, in qualche modo. Tecnicamente più pulito, svelto sul filo del fuorigioco, non garantisce però la stessa mole di lavoro di Rodrigo, e per questo ho condiviso la scelta di Lopetegui: utilizzare Rodrigo per sfiancare le difese, e Vázquez come killer a partita in corso.

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