El Pecho de Dios.


Il titolo naturalmente è la solita baracconata per attirare l’attenzione e costringervi a leggere il post (ci siete cascati), però è di certo un bel modo per distinguersi dalla massa decidere un titolo mondiale per club con un gol di petto, così come magicamente bizzarro fu il colpo di testa in sospensione nella finale di Champions con lo United.
Messi decide questo mondiale (a partire già dall’ingresso con gol-lampo nella semifinale con l’Atlante), nonostante condizioni atletiche precarie, e fa ancora una volta la storia, perché questo è il primo titolo intercontinentale nella storia del Barça e perché è il sesto trofeo in una stagione quasi certamente irripetibile.
Soddisfazione ancora più grande per le condizioni in cui è arrivata: ai supplementari dopo acute sofferenze causate da un primo tempo particolarmente inguardabile e da un Estudiantes che ha tenuto alto il buon nome del calcio argentino, ovvero disciplina difensiva, “carognaggine” e saper giocare a calcio in un impasto quasi sempre indigesto per l’avversario.

Giustissimo in casa blaugrana godersi quest’affermazione che permette di parlare compiutamente di ciclo, ma il presente e il futuro prossimo (vedi un Real Madrid ormai pronto a convertirsi in arma di distruzione di massa) impongono alcune riflessioni e aggiustamenti su problemi che nemmeno la partita di ieri ha nascosto.
Le molte gioie e le (ridotte ma da prendere sul serio) preoccupazioni culé passano da quattro nomi in particolare.
Pedrito l’amuleto
Messi ha posto la firma, ma chi davvero l’ha fatta svoltare questa finale è quel ragazzo delle Canarie che ha sempre l’aria di uno che passa di lì per caso ma che puntualmente si fa trovare al posto giusto. Ieri all’88’ in una giocata rocambolesca e fortunosa quanto volete, Pedro ha segnato l’ennesimo gol decisivo. Non è più un caso (tant’è che gli appartiene pure il record dell’unico giocatore blaugrana ad aver segnato in tutte e sei le competizioni in questo 2009-2010), qualcosa ci dovrà pur essere: non la tecnica di Messi, non la visione di gioco di Iniesta, ma caratteristiche che ne fanno una risorsa preziosa e sempre spendibile all’interno del modello di Guardiola sì.
Pedrito è anzitutto un giocatore “ideologicamente”a prova di bomba: ideale per giocare nel 4-3-3 made in La Masía, unica ala di ruolo della rosa, perfetto per dare ampiezza profondità e riferimenti al portatore di palla, con velocità e una buona tecnica (soprattutto col vantaggio di saper usare tutti e due piedi per calciare e portare palla) anche per puntare l’uomo. In più, particolare determinante, forza e freschezza mentale: mostra molti meno complessi e problemi ad entrare in partita, anche nelle partite più calde, di giocatori teoricamente molto più quotati di lui come Ibrahimovic e Bojan.
Freschezza mentale e intuito in zona-gol che fanno comodo a un Barça che con la partenza di Eto’o sembra fare più fatica ad aggredire l’area piccola.

E riguardo alla partita di ieri, le notizie buone dalla cantera non sono soltanto quelle già risapute su Pedro. Non decisivo ma buono, coerente con ciò che richiedeva il match, anche l’apporto di Jeffren. Canario anche lui, ma di origini venezuelane, individualmente pure più dotato di Pedro anche se meno prezioso per il collettivo, nei supplementari con le squadre più lunghe e stanche e con l’Estudiantes che logicamente faticava di più a coprire il campo ha portato un po’di energia e dribbling che potevano fruttare importanti azioni da gol già prima del colpo di petto di Messi.
Cantera che per una rosa un po’ corta come quella blaugrana saranno particolarmente importanti a gennaio, quando la Coppa d’Africa priverà il centrocampo di Yaya Touré e Keita. Probabile il ricorso a Jonathan dos Santos e Thiago Alcantara, già intravisti in prima squadra.
I meriti (e la fortuna) di Guardiola
Quando sblocchi una finale a due minuti dal termine e con un gol piuttosto casuale non puoi certo gongolarti rivendicando la tua genialità strategica. Però posto che l’ultima parola la mettono sempre e comunque i giocatori sul campo, va anche sottolineato che Guardiola ancora una volta l’aveva letta bene questa partita. Letture originali, talvolta anticonvenzionali (vedi la risposta all’inferiorità numerica nel Clásico), spesso azzeccate.
Il Barça del primo tempo di ieri era un mezzo disastro. Contro un Estudiantes schierato con un 4-3-1-2 pronto a trasformarsi in 4-2-3-1 a seconda dei movimenti di Enzo Pérez (punta aggiunta a supporto di Boselli in fase di possesso, esterno destro in ripiegamento) i blaugrana non riuscivano proprio a trovare la profondità né le situazioni di superiorità numerica classiche tra le linee e sulle fasce. Al centro gli argentini accorciavano con una linea difensiva sempre molto vicina al centrocampo (un po’come il Real Madrid al Camp Nou, anche se con un baricentro più basso), aiutati anche dall’inesistente minaccia di un Ibrahimovic che non dettava mai la profondità. Sulle fasce il pallone invece arrivava raramente e a una velocità sempre sufficientemente ridotta da permettere all’Estudiantes di mantenere le posizioni difensive.
Insomma, il tipico caso in cui una squadra domina il possesso-palla ma in realtà non fa mai la partita. L’Estudiantes prende le misure e trova anche il modo di colpire in fase di rilancio alcune zone scoperte dello schieramento blaugrana.
In particolare la fascia destra dove non sempre Messi aiuta Alves e dove il terzino sinistro del Pincha, Díaz, aiuta Benítez a creare la superiorità numerica, ispirando pure con un cross perfetto il gol del vantaggio di Boselli, ottimo opportunista come al solito.

La risposta di Guardiola nella ripresa è un cambio piuttosto radicale: un attaccante, Pedrito, ma al posto di un centrocampista, Keita (infortunato per i prossimi 15 giorni). Non è più un 4-3-3, ma qualcosa che somiglia molto a un 4-2-4. Il rischio, perché ogni scelta presenta un rovescio della medaglia, era che gli attacchi si facessero disordinati e la squadra si spezzasse in due, ma alla fine la reazione è stata sì determinata ma non confusa, e del cambio tattico si sono visti soltanto i vantaggi.
Gli effetti della mancanza di profondità di Ibrahimovic vengono attutiti: Messi gioca centrale e molto più vicino allo svedese, e se poi aggiungiamo Pedro ed Henry larghi rispettivamente a destra e sinistra, la difesa dell’Estudiantes si trova col rischio della parità numerica con l’attacco avversario. Questo, assieme ovviamente alla reazione d’orgoglio blaugrana, costringe il centrocampo argentino a retrocedere maggiormente a protezione del reparto arretrato, consegnando il predominio territoriale a un Barça che, gol casuale di Pedro a parte, nel secondo tempo si è mosso molto più costantemente e pericolosamente nei pressi della porta di Albil. Se la fortuna aiuta gli audaci, Guardiola è stato audace.
Il dubbio Ibrahimovic
Il Barça resta vincente, ma rispetto alla scorsa stagione non si può non notare un cambio, e cioè che questa squadra intimidisce di meno l’avversario e fa più fatica a creare occasioni da gol. Questo cambio è simboleggiato dalla figura di Ibrahimovic: prima che scatti il pensiero “allora Ibrahimovic è peggio di Eto’o” “il Barça ha fatto male”, chiarisco che Ibrahimovic è stato finora uno dei più positivi nella stagione blaugrana, senza ombra di dubbio. Però Zlatan ha pur sempre le sue caratteristiche, e bisogna far sì che si sposino al meglio con quelle del resto della squadra. Quando lo ha avuto Guardiola naturalmente sapeva che si trattava di un centravanti di manovra portato molto più a venire incontro ai centrocampisti che a occupare l’area di rigore, e lo ha gradito proprio per questo, perché è una fonte di gioco in più che dà possibilità ancora maggiori alla manovra culé.
Però se Zlatan svuota l’area qualcuno a riempirla ci deve pur essere, e in queste due partite di mondiale, ma anche in altre, il saldo è risultato negativo (e nell’occasione non è nemmeno stato carino aver tolto nelle fila avversarie a un randellatore come Desabato una presenza vicina cui poter far sentire tutto il suo affetto). Senza nessuno ad attaccare la profondità e a cercare di allungare le difese, gli avversari possono accorciare più facilmente in avanti, guadagnando metri anche per rilanciare il gioco.

Non è solo Zlatan il punto, è che in questo momento i meccanismi di compensazione all’interno della squadra scarseggiano, in particolare Henry che la stagione passata era preziosissimo coi suoi tagli a occupare in corsa gli spazi centrali che Messi lasciava nelle partite in cui agiva da falso centravanti.
Il francese per il momento non c’è proprio, e tutti devono fare uno sforzo in più: da Ibrahimovic che pur non snaturando il proprio gioco deve mostrarsi un po’più aggressivo (del resto gli si chiede uno sforzo molto minore di quello compiuto la stagione passata da Alves cambiando completamente i propri movimenti rispetto all’epoca del Sevilla), ai centrocampisti Keita (partito benissimo in zona gol, ora un po’ sgonfio), Xavi (in un momento piuttosto fiacco) e Iniesta (ieri assente) che devono proporre più inserimenti a sorpresa di quelli che già propongono e hanno proposto.
Di Ibrahimovic continua poi a lasciare perplessi il dato mentale ereditato dalle delusioni di Champions con l’Inter: in una partita decisiva come quella di ieri lo si è visto poco determinato anche quando le occasioni le ha avute, e continua a restare inspiegabile che un giocatore della sua classe e della sua stazza continui a farsi piccolo quando la contesa è particolarmente aspra, gol nel Clásico a parte.
Il caso Bojan
Un altro frenato ancora più pesantemente dal fattore mentale è Bojan Krkic, che immaginiamo si sentirà sottoterra dopo la gara di ieri. Novanta minuti di difficoltà offensive per il Barça e Guardiola gli preferisce non solo Pedrito ma anche Jeffren, scelte peraltro rivelatesi azzeccate. Non è la prima volta che capita, ed è la conferma di una fiducia ai minimi termini. È un peccato perché Bojan potenzialmente è uno che può mettere mano in maniera incisiva agli attuali problemi offensivi del Barça, essendo il più opportunista di tutti gli attaccanti della rosa blaugrana.
Vedendolo esplodere con Rijkaard a 17 anni si era pensato a un altro predestinato, uno con la personalità per muoversi senza problemi anche negli scenari più difficili. Invece il ragazzo ha un carattere molto più delicato, dimostrato anche da episodi come lo svenimento nello spogliatoio della nazionale spagnola alla prima convocazione o lo stesso anno il rifiuto della convocazione per l’Europeo per dichiarata inadeguatezza psicologica (questo da un altro verso può essere interpretato come un segno di intelligenza).
E queste difficoltà si vedono anche in campo in certi errori nel controllo o nelle conclusioni che in nessun modo possono essere spiegati attribuendogli una patente di mediocrità tecnica che non gli appartiene (non per altro, lo seguo sin dall’Europeo Under 17 del 2006, dove le giocate di qualità si sprecavano): ultimo esempio la partita con l’Atlante, dove prima sbaglia un controllo da zero in pagella e invece poi di prima chiude un triangolo con Pedrito con un difficile quanto meraviglioso passaggio d’esterno spalle alla porta.
La differenza fra i due esempi esposti è che nel primo Bojan ha avuto più tempo per pensare la giocata, mentre nella seconda ha agito d’istinto. Quando deve pensare troppo Bojan spesso si rifugia nella soluzione più semplice (che non è sempre la più giusta) oppure finisce col perdersi in un bicchier d’acqua; quando invece l’azione richiede istinto Bojan mostra notevole naturalezza e abilità soprattutto negli ultimi metri. Inoltre è un attaccante assai intelligente e completo nei movimenti senza palla, sia in appoggio (alla Ibra) che sul filo del fuorigioco, in un certo senso più completo tatticamente sia di Ibra che di Eto’o, anche se tremendamente sfavorito dal punto di vista atletico rispetto a questi due.
Il Barça ha bisogno di un Bojan in più.
FOTO: marca.com; mundodeportivo.es; elmundo.es
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